Il contenitore era un blocco di bambù-3 alto un metro e mezzo e largo due, avvolto in metapolimero trasparente. Una breve ispezione mostrò che il blocco conteneva centinaia di metri quadrati di composto di polietilene microsottile antiradar, con strisce di celle solari a elevata prestazione incorporate nel tessuto, ventiquattro segmenti conici articolati di titanio, collegati fra loro e parzialmente telescopici, quattro scatole metalliche pressurizzate con quello che ai suoi sensori risultava elio, una miscela di ossigeno e di azoto, metanolo, otto propulsori a impulso atmosferico con spinotti di regolazione automatica e infine dodici cavi di buckycarbonio lunghi quindici metri, ripiegati e agganciati ai quattro angoli del blocco di bambù-3.
«Ci rinuncio» disse Mahnmut, dopo vari minuti di riflessione e di esami. «Che diavolo è?»
«Un aerostato» disse Orphu.
Mahnmut scosse la testa. Nell'atmosfera di Giove c'erano creature a pallone aerostatico, sia viventi sia moravec, e altre nuotavano nella brodaglia di Saturno; ma che cosa intendeva farsene, Koros III, di un aerostato artificiale, su Marte?
Orphu trasmise la risposta mentre Mahnmut ci arrivava da solo. «La missione di Koros era di giungere sulla cima di Olympus Mons, il sito dei disturbi quantici, e in questo modo non avrebbe dovuto risalire il vulcano. Che dimensioni ha quel... pallone?»
Mahnmut gliele precisò.
«Gonfiato con elio qui, al livello del mare marziano» disse Orphu «avrebbe un diametro di poco più di sessanta metri e un'altezza di circa trentacinque, sufficiente a sollevare con facilità la navicella, te, il Congegno e la radio a trasmissione iperveloce, fino ai margini dello spazio... o alla cima di Olympus Mons.»
«Navicella?» ripeté Mahnmut, cercando ancora di capire bene.
«La scatola in cui è racchiuso. Chiaramente era lì che Koros III intendeva viaggiare. Ha un cappuccio di metapolimero, una sorta di copertura a tenuta d'aria?»
«Sì.»
«Allora è giusto.»
«Ma Olympus Mons ha una scala mobile sul lato sud» obiettò Mahnmut, come uno sciocco.
«Koros e i moravec che hanno preparato la missione non lo sapevano» disse Orphu.
Mahnmut distolse per un minuto lo sguardo dal pallone e rifletté. Le scogliere meridionali della Valles Marineris erano solo una sottile linea rossa contro l'orizzonte verdazzurro, mentre la feluca si inoltrava sempre più nel canale centrale dell'estuario. «La navicella è troppo piccola per portare anche te» disse alla fine Mahnmut.
«Be', naturalmente...» cominciò Orphu.
«Costruirò una navicella più grande» lo interruppe Mahnmut.
«Credi davvero che saliremo sulla cima di Olympus Mons?» disse piano Orphu.
«Non lo so» rispose Mahnmut. «Ma so che quando in questa piccola nave arriveremo all'estremità ovest della Valles Marineris, se ci arriveremo, saremo ancora a più di duemila chilometri dal vulcano. Non ho idea di come faremo ad attraversare il guazzabuglio del Noctis Labyrinthus e risalire l'altopiano Tharsis fino a Olympus Mons. Ma questo... pallone... potrebbe funzionare. Forse.»
«E se partissimo subito?» disse Orphu. «Il pallone sarebbe più veloce di questa... come l'hai chiamata?»
«Feluca» rispose Mahnmut, con un'occhiata al sartiame e alle vele stagliate contro il rosa e il blu del cielo: parecchi piccoli omini verdi dondolavano senza sforzo da una sartia all'altra. «E, no, non penso che dovremmo usare il pallone prima del dovuto. Il tessuto antiradar copre anche la navicella, ma non sono convinto che quelli del cocchio volante non possano rilevarlo. Lo lanceremo quando avremo raggiunto Noctis Labyrinthus. Sarà comunque un viaggio aereo abbastanza lungo e difficile, perché fra noi e Olympus Mons ci saranno tre dei più alti vulcani di Marte.»
Orphu emise un rombo quasi ultrasonico. «Calcolando anche il viaggio in nave, ci tocca percorrere un po' più di un quarto del pianeta.»
Mahnmut tentò di passare il tempo e di rinfrancarsi un poco leggendo i sonetti di Shakespeare dal libro che aveva salvato dal Dark Lady. Non funzionò. Mentre negli scorsi anni si era tuffato nell'analisi, nella ricerca di strutture nascoste, di legami di parole e di contenuto drammatico, ora vedeva i sonetti come opere tristi. Tristi e piuttosto sgradevoli.
A Mahnmut il moravec non importava affatto di ciò che "Will", il "poeta" dei sonetti, faceva al "Giovane" o s'aspettava che lui gli facesse in cambio (Mahnmut non aveva né pene né ano e non rimpiangeva di non averli) ma ora trovava opprimente, ai confini della perversità, la prolissa adulazione e la flagrante prepotenza del poeta verso lo sciocco ma ricco Giovane. Saltò ai sonetti della "Dama bruna", ma questi erano ancora più cinici e perversi. Mahnmut concordò con l'analisi che l'interesse del poeta per la Dama bruna era incentrato precisamente sulla promiscuità di lei: quella donna dai capelli neri, dagli occhi neri, dal seno grigio e dai capezzoli neri era, se bisognava credere al poeta, non una prostituta, ma certamente qualcosa di non molto lontano da una donnaccia.
Mahnmut aveva da tempo scaricato il saggio di Freud del 1910, Uno speciale tipo di scelta d'oggetto fatta da uomini,nel quale lo stregone dell'età perduta aveva documentato casi di maschi umani che potevano essere eccitati sessualmente solo da donne di cui era ben nota la promiscuità. Shakespeare non aveva avuto esitazione a descrivere una vagina come "la baia dove ognuno attracca" e a giocarci ironicamente (O cunning love,o astuto amore) a proposito della facile promiscuità della sua Dama bruna; e mentre Mahnmut aveva trascorso anni felici a trovare livelli più profondi e strutture drammatiche dietro queste volgarità, quel giorno (il sole vicino al tramonto proprio nel grande mare interno, le scogliere illuminate di rosso verso nord) vedeva i sonetti solo come panni sporchi, le confessioni private di un poeta salace.
«Leggi i sonetti?» chiese Orphu.
Mahnmut chiuse il libro. «Come lo sapevi? Sei diventato telepatico, dopo avere perso gli occhi?»
«Non ancora» rise il moravec di Io. Era legato sul ponte a dieci metri da Mahnmut seduto a prua. «Alcuni tuoi silenzi sono più letterari di altri, ecco tutto.»
Mahnmut si alzò e si girò verso il tramonto. I piccoli omini verdi si muovevano in fretta nel sartiame e lungo la gomenetta dell'ancora, preparando la nave per il loro sonno. «Perché hanno programmato in alcuni di noi una predisposizione per i libri umani?» chiese Mahnmut. «Cosa se ne fa, un moravec, ora che la razza umana potrebbe essere estinta?»
«Me lo sono chiesto anch'io» disse Orphu. «Koros III e Ri Po non avevano questa nostra afflizione, ma tu avrai di sicuro conosciuto altri moravec ossessionati dalla letteratura umana.»
«Urtzweil, il mio vecchio compagno, leggeva e rileggeva la Bibbia nella versione di re Giacomo» disse Mahnmut. «L'ha studiata per decenni.»
«Sì» disse Orphu. «E io e il mio Proust.» Canticchiò a bocca chiusa alcune battute di Me and My Shadow. «Sai cos'hanno in comune tutte queste opere intorno a cui gravitiamo?»
Mahnmut rifletté un momento. «No» rispose infine.
«Sono inesauribili.»
«Inesauribili?»
«Impossibili da consumare. Se fossimo umani, quei particolari drammi e romanzi e poesie sarebbero come case che presentano sempre nuove stanze, scale nascoste, soffitte mai visitate... quella sorta di cose.»
«Ah-ah» fece Mahnmut, poco convinto dalla metafora.
«Oggi non sembri felice, con il tuo Bardo» disse Orphu.
«Credo che la sua inesauribilità abbia esaurito me» ammise Mahnmut.
«Cosa succede sul ponte? C'è gran movimento?»
Mahnmut girò le spalle al tramonto. Tre quarti dell'equipaggio della nave sgambettava in silenzio, legava vele, si arrampicava sulle sartie, calava l'ancora e la fissava. Restavano tre o quattro minuti di luce utile, poi i piccoli omini verdi sarebbero entrati in ibernazione: si sarebbero distesi, rannicchiati, chiusi per la notte.
«Hai sentito le vibrazioni del ponte?» chiese Mahnmut al suo amico. Olfatto a parte, era l'ultimo senso che restava a Orphu.
«No, sapevo che il giorno era alla fine. Perché non li aiuti?»
«Prego?»
«Perché non li aiuti?» ripeté Orphu. «Sei un uomo di mare sano e robusto. Quanto meno, sai distinguere un gherlino da un merlino. Da' loro una mano... o il più prossimo equivalente moravec.»
«Darei solo fastidio» disse Mahnmut. Guardò il rapido lavoro e la perfetta precisione dei piccoli omini verdi. Correvano sul sartiame e sugli alberi come le scimmie che aveva visto nei video. «E poi noi non siamo telepatici» soggiunse Mahnmut «ma sono abbastanza sicuro che loro lo siano. Non hanno bisogno del mio aiuto.»
«Sciocchezze» disse Orphu. «Renditi utile. Io torno a leggere di Monsieur Swann e della sua amica infedele.»
Mahnmut esitò un momento, poi mise nello zaino l'insostituibile libro di sonetti, trotterellò a mezza nave e collaborò a legare la vela latina appena ammainata. Sulle prime i POV si bloccarono nel lavoro sincronizzato e si limitarono a fissare il moravec (occhi come bottoni d'antracite immobili nel viso verde privo di lineamenti), poi però gli fecero posto e Mahnmut, lanciando occhiate al sole al tramonto e aspirando la fresca aria marziana, si mise di lena al lavoro.
Nelle settimane seguenti Mahnmut cambiò umore, passò dalla depressione alla soddisfazione e a qualcosa di simile all'equivalente moravec della gioia. Lavorò ogni giorno insieme con i POV, continuando a conversare con Orphu anche mentre rattoppava vele, impiombava cordame, ramazzava i ponti, tirava su l'ancora e faceva il turno alla barra. La feluca progrediva di quaranta chilometri al giorno, che parevano pochissimi finché non ci si rendeva conto di risalire il fiume, procedendo perciò contro corrente e con venti irregolari, a remi per la maggior parte del tempo e fermandosi completamente di notte. Poiché la Valles Marineris era lunga circa quattromila chilometri (quasi la larghezza di una nazione dell'Età Perduta, gli Stati Uniti, continuava a ricordargli Orphu) Mahnmut era rassegnato a compiere la traversata in circa cento giorni marziani. Al di là del bordo occidentale del mare interno (Mahnmut continuava a ricordarlo a se stesso e Orphu continuava a ricordarglielo, quando lui se ne dimenticava) c'era l'altopiano Tharsis, con i suoi milleottocento e passa chilometri.
Mahnmut non aveva fretta. I piaceri di navigare sulla feluca (l'imbarcazione non aveva nome, per quanto lui ne sapeva... e non intendeva uccidere un piccolo omino verde per chiederglielo) erano semplici e reali, il panorama era stupefacente, di giorno il sole era caldo, di notte l'aria era deliziosamente fresca e la disperata urgenza della loro missione a poco a poco svaniva nel rassicurante ciclo della routine.
Verso la fine della sesta settimana di navigazione, mentre lavorava all'albero di trinchetto della feluca, Mahnmut vide comparire un cocchio, dritto davanti alla nave, a meno di mezzo chilometro, in volo a bassa quota (solo una trentina di metri sopra le vele) e non ebbe il tempo di correre al coperto. Era da solo all'intersezione dei due segmenti dell'albero (una feluca ha vele triangolari e due alberi a segmenti, con la parte superiore arditamente inclinata all'indietro) e non c'erano piccoli omini verdi nel sartiame. Mahnmut era completamente esposto alla vista di chiunque o qualsiasi cosa pilotasse il cocchio.
Il velivolo sorvolò la feluca, viaggiando a varie centinaia di chilometri all'ora, a quota molto bassa, e Mahnmut vide che i due cavalli che tiravano il cocchio erano ologrammi. L'unico occupante, un uomo alto, in tunica color bronzo, reggeva le redini virtuali. Aveva pelle dorata, era maestosamente bello e lunghi capelli biondi gli ondeggiavano alle spalle. Non si degnò di guardare in basso.
Mahnmut ne approfittò per esaminare veicolo e occupante, utilizzando ogni filtro visivo, frequenza e lunghezza d'onda a disposizione; trasmise via radio i dati a Orphu, nel caso che il dio sul cocchio lo avesse visto e avesse deciso di sbatterlo giù dall'albero, con un semplice gesto della mano. Cavalli, redini e ruote erano ologrammi, ma il cocchio era reale, fatto di titanio e oro. Mahnmut non riuscì a rilevare razzi, impulsi ionici o scie jet, ma il cocchio emetteva energia su tutto lo spettro elettromagnetico, sufficiente a disturbare il resoconto radio di Mahnmut a Orphu, se non fosse avvenuto su fascio compatto. Cosa più infausta, la macchina volante aveva in scia festoni quadridimensionali di flusso quantico. Parte del profilo energetico della macchina era racchiuso in un campo di forza che Mahnmut vedeva chiaramente nell'infrarosso: uno scudo d'energia sulla parte anteriore del velivolo lanciato a grande velocità, a protezione dal vento del suo stesso passaggio, e una più larga bolla difensiva tutt'intorno. Mahnmut era lieto di non avere tirato un sasso o sparato al carro... se avesse avuto un sasso o un'arma a energia, che in realtà non aveva. Quel campo di forza, calcolò Orphu, avrebbe protetto il pilota da qualsiasi cosa tranne una piccola esplosione nucleare.
«Cosa lo fa volare?» chiese Orphu, mentre il cocchio rimpiccioliva a est. «Marte non ha campo magnetico tanto forte da muovere una macchina volante.»
«Credo sia il flusso quantico» disse Mahnmut, sempre appollaiato sull'albero. Era un giorno ventoso e la feluca dondolava e bordeggiava e le onde la colpivano da sud.
Orphu emise un verso poco educato. «La distorsione quantica diretta può lacerare tempo e spazio, anche popoli e pianeti, ma non capisco come possa far volare un cocchio.»
Mahnmut si strinse nelle spalle, anche se il suo amico non poteva vederlo. «Be', non ha eliche» replicò. «Ti scaricherò i dati, ma a me è parso che quel goffo affare facesse surf su un ricciolo di distorsione quantica.»
«Peculiare» disse Orphu. «Comunque, anche mille macchine volanti come quella non potrebbero spiegare il locus di distorsione quantica rilevato da Ri Po su Olympus Mons.»
«No» convenne Mahnmut. «Almeno quel... dio... non ci ha visti.»
Seguì una pausa e Mahnmut ascoltò il rumore della prua contro le onde e lo sbatacchiare del cordame delle vele latine che si gonfiavano d'aria. C'era un gentile mormorio di vento tra le sartie dove Mahnmut si trovava e il moravec ne apprezzava il suono. Apprezzava anche il men che gentile rollio e beccheggio della nave che bordeggiava, anche se lo compensava facilmente reggendosi con una mano all'albero e con l'altra a una gomena tesa. Erano ben dentro la più. ampia sezione della valle tettonica allagata, adesso, in una zona detta Melas Chasma - con il vasto e lucente mare del Candor Chasma che si apriva a nord e il fondo marino a più di ottomila chilometri sotto di loro - ma all'orizzonte, verso sud, si vedevano scogliere di enormi isole, alcune lunghe molti chilometri e larghe trenta o quaranta.
«Forse ti ha visto e si è limitato a chiedere rinforzi per radio a Olympus Mons» suggerì Orphu.
Mahnmut trasmise l'equivalente di un sospiro in disturbi radio. «Sei sempre ottimista» disse.
«Realista» lo corresse Orphu. Ma divenne serio nella trasmissione successiva. «Sai, Mahnmut, presto dovrai parlare ai piccoli omini verdi. Abbiamo troppe domande che necessitano di risposta.»
«Lo so» disse Mahnmut. Al pensiero, sentì un vago senso di malessere che nemmeno il rollio della feluca gli aveva provocato.
«Forse sarà meglio anticipare l'uso del pallone» suggerì di nuovo Orphu. Mahnmut aveva trascorso diversi giorni a mettere insieme alla meno peggio una navicella più grande, utilizzando il bambù-3 di quella originaria e alcune assi tolte da uno dei meno indispensabili parapetti di murata della feluca. I POV non avevano avuto niente da eccepire.
«Penso che non sia ancora il momento di lanciare il pallone» disse Mahnmut. «Non sappiamo neppure in quale direzione soffino in prevalenza i venti in questo mese e i propulsori a impulso non ci daranno molta manovrabilità, una volta che il pallone sarà salito nelle correnti marziane. Meglio avvicinarsi il più possibile a Olympus Mons, prima di rischiare il pallone.»
«Sono d'accordo» disse Orphu, dopo qualche istante di silenzio. «Ma è ora di parlare di nuovo ai POV. Ho una teoria secondo la quale non usano la telepatia, né quando parlano con te né quando trasmettono informazioni fra loro.»
«No?» disse Mahnmut, guardando giù in direzione di una decina di piccoli omini verdi che salivano dai banchi dei remi e cominciavano a lavorare con efficienza sul cordame di prua. «Non riesco a immaginare cos'altro potrebbe essere. Di sicuro non hanno bocca né orecchie e non si scambiano dati su nessun tipo di frequenza.»
«Credo che le informazioni siano nelle particelle nel loro corpo» disse Orphu. «Nanopacchetti di informazioni codificate. Per questo vogliono che tu usi la mano per afferrare il loro organo interno, una sorta di centrale telegrafica: la tua mano, a differenza dei tuoi generici manipolatori, è organica. Macchine molecolari viventi possono passare nel tuo flusso sanguigno per via osmotica e raggiungere il tuo cervello organico, dove gli stessi nanobyte collaborano a tradurre.»
«Ma come comunicano fra loro?» chiese Mahnmut, dubbioso. Preferiva l'ipotesi della telepatia.
«Nello stesso modo» rispose Orphu. «Col tatto. La loro pelle è semipermeabile e probabilmente il passaggio dei dati avviene a ogni contatto anche casuale.»
«Non so» disse Mahnmut. «Ricordi che, quando è giunta la feluca, il suo equipaggio pareva sapere già tutto di noi? Compresa la nostra destinazione? Mi è parso che la nostra presenza fosse stata diffusa telepaticamente per tutta la rete psichica dei piccoli omini verdi.»
«Sì, ho avuto anch'io la stessa impressione» disse Orphu. «Ma, a parte il fatto che la scienza umana o moravec non ha mai stabilito anche solo un contesto teorico per la telepatia, il rasoio di Occam imporrebbe che l'equipaggio della feluca abbia saputo di noi tramite semplice contatto fisico con i POV nel punto di approdo o con altri che erano già stati lì.»
«Nanopacchetti di dati nel flusso sanguigno, eh?» disse Mahnmut, lasciando trasparire lo scetticismo. «Ma se faccio altre domande, uno di loro deve comunque morire.»
«Purtroppo» disse Orphu, senza ripetere l'argomentazione che i singoli POV non avevano probabilmente maggiore personalità autonoma di quanta non ne avessero le cellule della pelle umana.
Parecchi piccoli omini verdi si arrampicavano sul trinchetto vicino a Mahnmut, legando cavi e ammainando la vela latina, con l'abilità di acrobati. Nel passare su o giù, muovevano amichevolmente la testa in un cenno di saluto.
«Aspetterò ancora un poco, a fare domande» disse Mahnmut. «In questo momento all'orizzonte meridionale c'è un'enorme nube rossa e marrone e ci sarà bisogno di tutti per fare fronte alla tempesta in arrivo.»
27
PIANA DI ILIO
I troiani massacrano i greci. I miei studenti, nell'altra mia vita, avrebbero detto "decimano" i greci, usando il termine per indicare la totale distruzione tanto amato, negli anni tra la fine del ventesimo secolo e l'inizio del ventunesimo, da giornalisti pigri e da presentatori televisivi illetterati; ma il verbo "decimare" ha un significato ben preciso (uccidere una persona su dieci, come facevano per rappresaglia gli antichi romani nei villaggi di ribelli) e indica un numero di vittime pari a un semplice dieci per cento, perciò è giusto dire che i troiani non decimano i greci, fanno ben di peggio.
I troiani li massacrano.
Dopo l'ultimatum agli altri dèi, Zeus si telequanta sulla terra, nel cocchio d'oro, e scende sulle pendici del monte Ida, la più alta montagna che permette la migliore vista divina di Ilio; si accomoda sul trono di dimensioni superiori al normale, posto sulla vetta, e guarda in basso le alte mura della città e le centinaia di navi da guerra achee tirate a riva o alla fonda più al largo. Gli altri dèi sono troppo intimiditi per scendere a giocare, dopo la sua dimostrazione di potere; così il padre degli dèi estrae l'aurea bilancia e pondera il fato di morte per gli uomini in basso: un peso ha la sagoma di cavaliere troiano, l'altro quella di lanciere argivo in corazza di bronzo.
Zeus solleva ben in alto la sacra bilancia, reggendola dal centro dell'asta, e giù vanno le sorti degli achei, mentre le fortune di Troia salgono al cielo. Zeus sorride, ma sono abbastanza vicino da vedere che il vecchio bastardo tiene il pollice su uno dei piatti.
I troiani escono a frotte dalle porte della città, come calabroni da un alveare disturbato. Il cielo è basso, grigio, ribolle di scura energia e i fulmini di Zeus colpiscono con frequenza il campo di battaglia, ma sempre fra gli argivi e i greci dalla lunga capigliatura. Pur vedendo i chiari segni del malcontento del re degli dèi, i greci avanzano a combattere (che altro possono fare?) e la piana di Ilio echeggia del cozzo di scudi di cuoio, dello sfregamento di picche, del frastuono di cocchi, delle grida di moribondi e dei nitriti di cavalli in agonia.
Va male per gli achei fin dall'inizio. I fulmini cadono nelle loro file, arrostiscono guerrieri in corazza di bronzo come polli alla creta in una rosticceria. Ettore carica come una forza della natura: il coraggioso condottiero da me ammirato sulle mura di Ilio, con la moglie e il figlioletto, è sparito, ha lasciato il posto a un berserker - mitico guerriero orso del Nord - sporco di sangue che abbatte nemici come se recidesse steli d'erba e che urla ai suoi uomini di spargere altro sangue, di fare un massacro. Quelli obbediscono, tutto l'esercito troiano e i suoi alleati gridano come da una sola gola, avanzano en masse e si rovesciano, come uno tsunami di bronzo e di cuoio, sugli achei in ritirata.
Paride (che nella descrizione dell'incontro con Ettore, solo il giorno prima, ho liquidato come un damerino e che poi ho provveduto a cornificare) corre sul cocchio a fianco di Ettore e avanza come un'indemoniata macchina omicida. Per uccidere predilige l'arco e oggi le sue lunghe frecce paiono andare sempre a segno. Achei e argivi cadono con una lunga freccia di Paride piantata nella gola, nel cuore, nei genitali, negli occhi. Ogni colpo è un centro.
Ettore si apre a fendenti il varco in ogni sacca di resistenza dei greci, mozza colli come steli di margherite, non concede quartiere e non ascolta implorazioni di pietà, reso sordo dalla frenesia omicida. Quando i greci riescono a raccogliersi qua e là in eroici gruppetti per opporsi al furioso assalto dei troiani, una saetta d'energia blu schizza dalle nubi ribollenti ed esplode fra loro come una granata cosmica; il successivo rombo del tuono si confonde con le urla dei moribondi.
Idomeneo e il grande re Agamennone colpiscono e fuggono. I due Aiace, il Grande e il Piccolo, veterani di mille combattimenti, si perdono di coraggio e fuggono dal campo di battaglia. Odisseo, il paziente, si spazientisce per il massacro e decide che il vero coraggio sta nella sicurezza delle navi tirate a secco sulla spiaggia. Corre con grande rapidità, per uno di gamba corta. L'unico a non girare le spalle e darsi alla fuga è il vecchio Nestore, ma solo perché il marito di Elena ha colpito con una freccia il cavallo di testa del suo cocchio, provocando il trambusto tra gli altri. A colpi di spada Nestore taglia le tirelle, con la chiara intenzione di lasciare alla massima velocità il campo di battaglia in groppa a uno dei destrieri, ma il cocchio di Ettore avanza, gli uomini intorno all'acheo cadono trafitti dalle frecce di Paride e i cavalli fuggono ancora più velocemente degli eroi greci in ritirata, lasciando il vecchio Nestore sul carro inerte, mentre Ettore si avvicina rapidamente.
Quando Odisseo passa di corsa, senza dargli nemmeno un'occhiata, Nestore grida: «Dove vai così di fretta, o figlio di Laerte, freddo stratega...». È sarcasmo sprecato. Odisseo scompare nel polverone dei cavalli in ritirata, senza fermarsi ad aiutare il vecchio amico.
Diomede, che ha sempre avuto più paura d'essere chiamato codardo che del dolore o della morte, spinge di nuovo il cocchio nella mischia, per salvare Nestore e respingere Ettore. Afferra al volo il vecchio acheo come se fosse un sacco di panni da lavare e, abile auriga, prende a due mani le redini e guida il cocchio verso Ettore che viene alla carica. È abbastanza vicino da scagliargli contro la pesante lancia, ma uccide invece l'auriga, Eniopeo, figlio di Tebeo, e per un momento, mentre il cadavere piomba fra i sorpresi soldati a piedi e i cavalli di Ettore s'impennano, privi di guida, ogni cosa cambia.
Ho letto che in molte battaglie c'è un momento come questo, dove tutto è in bilico. Mentre Ettore lotta per riprendere il controllo dei cavalli e i troiani con lui esitano, confusi, i greci scorgono una possibile inversione delle sorti e si precipitano nel varco, correndo dietro al vecchio Nestore e a Diomede, Per un istante gli achei hanno di nuovo l'iniziativa, lanciano grida di sfida e abbattono i guerrieri che guidano l'assalto troiano.
Allora Zeus interviene ancora. Il tuono rumoreggia. Fulmini spaccano il terreno, cavalli spariscono in un lampo di luce e nel puzzo di zolfo e di zoccoli bruciati. I cocchi achei intorno a Diomede e a Nestore esplodono in una confusione di carne di cavallo e di cadaveri scagliati in aria. Il bronzo si fonde e gli scudi di cuoio prendono fuoco. Anche a quel tonto di Diomede risulta chiaro che Zeus non è soddisfatto di lui, oggi.
Nestore cerca di far girare i cavalli imbizzarriti, ma quelli sono ormai lanciati al galoppo e non si riescono più a governare. Il cocchio, rimasto isolato, adesso, perché gli altri achei se la sono data a gambe, si getta contro diecimila troiani inferociti.
«Svelto, Diomede, prendi le redini e aiutami a girare i destrieri!» grida Nestore. «Combattere ancora oggi significa morire oggi.»
Diomede afferra le redini, ma non gira il cocchio. «Se scappo oggi, vecchio soldato, Ettore si vanterà con i suoi: "Ho messo in fuga Diomede e l'ho fatto correre alle navi".»
Nestore afferra per il collo Diomede e gli grida: «Ti sei bevuto il cervello? Gira il fottuto cocchio, testa di cazzo, o Ettore ci scuoierà prima che a Troia sia l'ora della merenda».
O parole che abbiano lo stesso effetto. Sono lontano un centinaio di metri, dall'altra parte del campo di battaglia, quando questo accade, ed è possibile che il microfono direzionale non funzioni bene. Inoltre mi sono morfizzato in un fante troiano e corro insieme con gli altri e guardo la scena da sopra la spalla, mentre le frecce di Paride cadono intorno a noi e fra noi.
Per un paio di secondi Diomede lotta col dilemma, quindi si mette a lottare con i cavalli, li costringe a girare la testa e spinge il cocchio verso le nere navi e la salvezza.
«Ah!» grida Ettore, nel frastuono. Ha un nuovo auriga, Archettolemo, il bel figlio di Ifito, e avanza di nuovo col rinnovato vigore di chi si goda davvero il proprio lavoro. «Ah! Diomede... ti ho messo in fuga! Vigliacco! Femminuccia! Marionetta tirata a lucido! Tremolante peto di passero!»
Diomede, con lo sguardo bieco per l'ira e l'imbarazzo, si gira sul cocchio, ma ora è Nestore a tenere le redini e gli stessi cavalli hanno capito da quale parte stia la salvezza. Il cocchio sobbalza su sassi e solchi e fanti greci in fuga che intralciano il folle galoppo verso la spiaggia e la salvezza; e l'unico modo in cui Diomede può combattere Ettore è quello di saltare giù e affrontare a piedi le migliaia di troiani. Diomede decide di non provarci.
"Se decidi di cambiare il nostro destino, devi trovare il fulcro" aveva detto Elena, la mattina in cui ero con lei.
Poi mi aveva fatto domande sull'Iliade (anche se riteneva un responso da oracolo la mia conoscenza del futuro) e mi aveva incitato a trovare il fulcro degli eventi, il singolo punto, nella guerra ormai decennale, dove ogni evento s'imperniava. Il cardine del fato, all'atto pratico.
Avevo esitato, quel mattino, e avevo distratto lei e me stesso, con un'ultima tornata d'amore; ma poi, nelle successive folli ore, avevo riflettuto sulla faccenda.
"Se decidi di cambiare il nostro destino, devi trovare il fulcro."
Mi sarei giocato la fama di studioso di Omero sul fatto che il fulcro di questo particolare e tragico racconto si avvicinava a grande velocità: l'ambasciata ad Achille.
Per ora gli eventi continuano, più o meno, a seguire il poema, anche se Afrodite e Ares sono a bordo campo per ferite. Zeus ha stabilito le regole ed è intervenuto a favore dei troiani. Non intendo telequantarmi di nuovo sull'Olimpo, a meno d'esservi costretto, ma immagino che pure lì gli eventi seguano la narrazione di Omero... La regina Era, crucciata perché gli argivi le prendono, cerca di convincere Poseidone a intervenire a nome suo, ma "il dio che scuote la terra" rimane sconvolto dalla proposta: non ha alcuna voglia di fare guerra a Zeus. Poi, quando i greci saranno davvero messi in fuga, più tardi oggi stesso, Atena si spoglierà, indosserà la sua più bella e lucente corazza da guerra (be', ammetto che solo per questo varrebbe la pena telequantarsi sull'Olimpo) ma sarà bloccata da Iride, la messaggera di Zeus. Il messaggio di Zeus sarà succinto...
"Se tu ed Era decidete di opporvi a me con clangore d'armi, cara la mia ragazza dagli occhi grigi, storpierò i vostri destrieri sotto il giogo, distruggerò il vostro cocchio, vi sbatterò giù e con i miei fulmini vi strazierò così orribilmente che sarete obbligate a restare nelle vasche di guarigione per dieci lunghissimi anni, prima che i vermi blu abbiano finito di ricucirvi."
Atena resterà sull'Olimpo. I greci, dopo alcuni inefficaci contrattacchi, patiranno pesanti perdite e si ritireranno al riparo delle loro fortificazioni (un fossato scavato dieci anni fa, subito dopo l'approdo, migliaia di pali appuntiti, tutte difese migliorate e potenziate di recente su ordine di Agamennone) ma anche dietro la muraglia protettiva, presi dal panico, si perderanno d'animo e voteranno per tornare a casa.
Agamennone tenterà di rincuorarli, imbandirà un grande banchetto per i condottieri (mentre Ettore e le sue migliaia di guerrieri si organizzano per l'assalto finale che terminerà con il fuoco appiccato alle nere navi achee e deciderà una volta per tutte l'esito della guerra), durante il quale Nestore sosterrà che l'unica speranza degli achei consiste nella rappacificazione di Agamennone e Achille.
Agamennone accetterà di pagare ad Achille un riscatto da re... più di un riscatto da re: sette tripodi non toccati dal fuoco, dieci talenti d'oro, venti lustri bacili di rame, dodici destrieri, sette bellissime donne e non ricordo cos'altro, forse una ciliegina sulla torta. Soprattutto il riscatto comprenderà la figlia di Briseo, Briseide, la schiava al centro della disputa. Per infiocchettare con nastro rosso questo dono, Agamennone giurerà inoltre di non avere mai portato a letto Briseide. Come incentivo finale aggiungerà sette cittadine: Cardamile, Enope, Ire, Antea, Fere, Epea e Pedaso. Naturalmente lui non possiede né governa quelle cittadine, in realtà regala terre dei suoi vicini, ma ciò che conta è il pensiero, immagino.
Una sola cosa Agamennone rifiuterà: presentare le proprie scuse. È troppo orgoglioso per inchinarsi ad Achille. «Sia lui a inchinarsi a me!» griderà fra qualche ora a Nestore, Odisseo, Diomede e agli altri condottieri. «Sono un re più potente di lui, più anziano di lui e, lo rivendico, più grande come uomo.»
Malgrado l'arroganza di Agamennone, Odisseo e gli altri troveranno una via d'uscita. Si rendono conto che, se portano il messaggio della restituzione di Briseide e della elargizione di tutti gli altri ricchi doni (e accidentalmente dimenticano l'accenno a "più grande come uomo"), c'è una possibilità che Achille riprenda il combattimento. L'ambasciata ad Achille offre almeno un raggio di speranza.
Qui comincia la parte complicata, qui si può ancora trovare il fulcro.
Come studioso, so in cuor mio che l'ambasciata ad Achille è il punto cruciale e il perno dell'Iliade. La decisione che prenderà Achille, dopo avere ascoltato le suppliche degli ambasciatori, determinerà il flusso di tutti gli eventi futuri: la morte di Ettore, la successiva morte di Achille, la caduta di Ilio.
Ma qui c'è la parte infida. Omero sceglie con molta cura le parole, forse con più cura di qualsiasi narratore della storia. Dice che Nestore nominerà cinque uomini per l'ambasciata ad Achille: Fenice, Aiace il Grande, Odisseo, Odio ed Euribate. Questi ultimi sono due semplici araldi, decorazioni per amore di protocollo, e non entreranno nella tenda di Achille insieme con gli altri effettivi ambasciatori né prenderanno parte alle discussioni.
Il problema deriva dal fatto che Fenice è una scelta strana: non è mai comparso prima nel racconto, non è un condottiero, ma un precettore mirmidone al servizio di Achille e non ha molto senso che sia inviato a convincere il suo stesso padrone. Inoltre, quando gli ambasciatori camminano lungo la riva del mare ("dove risuonano i battaglieri frangenti") diretti alla tenda di Achille, Omero usa la forma verbale duale, una via di mezzo tra il singolare e il plurale, riferita sempre a due persone: nel caso specifico, Aiace e Odisseo. Omero usa altre sette parole che, nel greco dei suoi giorni, di questo giorno, si riferiscono a due uomini, non a tre.
Dov'è allora Fenice, durante la lunga camminata dal campo di Agamennone alla tenda di Achille? Possibile che sia già nella tenda di Achille, in attesa dell'ambasceria? La cosa non ha molto senso.
Diversi studiosi, prima e durante il mio tempo sulla terra, ne hanno discusso, sostenendo che Fenice era una goffa aggiunta al racconto, un personaggio inserito secoli dopo, spiegando così l'uso della forma duale dei verbi; ma questa teoria non tiene conto del fatto che Fenice farà un intervento più lungo e più complesso degli altri ambasciatori. Il suo discorso, così meravigliosamente digressivo e complicato, sa proprio di Omero.
Si direbbe che il poeta cieco si sia confuso sul numero, due o tre, di ambasciatori e sull'esatto ruolo di Fenice nella conversazione che avrebbe deciso la sorte degli interpreti.
Ho qualche ora per riflettere.
"Se decidi di cambiare il nostro destino, devi trovare il fulcro."
Ma questo evento è di qualche ora nel mio futuro. Qui è ancora metà pomeriggio e i troiani fanno una pausa nel loro lato del fossato acheo, mentre i greci si aggirano qua e là come formiche dietro la muraglia di sassi e di pali appuntiti. Morfizzato in un sudato lanciere acheo, riesco ad avvicinarmi ad Agamennone: il grande re prima rampogna i suoi uomini, poi invoca l'aiuto di Zeus nella loro ora più buia.
«Vergogna!» grida il figlio di Atreo al malconcio esercito. Solo un centinaio di guerrieri può udirlo, ovviamente, perché l'antica acustica era quello che era; ma Agamennone ha voce potente e gli uomini in fondo passano il messaggio agli altri.
«Vergogna! Ignominia! Avete l'aspetto di splendidi guerrieri, ma siete solo simulatori! Avete giurato di bruciare questa città e invece mangiate a crepapelle buoi comprati a mie spese e bevete coppe di vino piene fino all'orlo, vino comprato e fatto giungere qui a mie spese! Guardatevi! Plebaglia sconfitta! Vi vantavate che ciascuno di voi era pronto ad affrontare cento troiani, duecento... e ora non tenete testa nemmeno a un solo mortale, Ettore!
«Sì, Ettore, che tra poco sarà qui a dare alle fiamme le navi; e questo esercito di millantati "eroi"...» in pratica sputa la parola «fuggirà a casa da mogli e figli... a mie spese!»
Smette di prendersela con l'esercito e alza le braccia al cielo, verso meridione e il monte Ida, da dove sono giunti i fulmini e i tuoni e le nubi tempestose. «Padre Zeus, come puoi distruggere così la mia gloria? Ti ho forse offeso? Mai, te lo giuro, neppure una sola volta, nemmeno nel viaggio per mare fin qui, sono passato davanti a un tuo tempio senza fermarmi a bruciare grasso e cosce di buoi per la tua gloria. La nostra preghiera era semplice: radere al suolo le mura di Ilio, uccidere i suoi eroi, stuprare le sue donne, ridurre in schiavitù il suo popolo. Era chiedere troppo?
«Padre, esaudisci questa preghiera: fa' che i miei uomini scampino, almeno questo. Non lasciare che Ettore e i troiani ci bastonino come un mulo preso a nolo!»
Ho sentito Agamennone pronunciare discorsi più eloquenti (diavolo, tutti i suoi discorsi erano più eloquenti di questo e capisco che Omero abbia ritenuto necessario riscriverlo) ma in quell'istante avviene un miracolo. Almeno, gli achei lo prendono per un miracolo.
All'improvviso da meridione compare un'aquila enorme che stringe fra gli artigli un cerbiatto.
La folla, che cominciava a dirigersi alle navi e alla salvezza in mare e che si è fermata solo un momento al discorso di Agamennone, si blocca e addita il portento.
L'aquila gira in tondo, si abbassa e da trenta metri lascia cadere il cerbiatto ancora scalciante su un monticello di sabbia ai piedi dell'altare di pietra che gli achei avevano innalzato a Zeus, subito dopo lo sbarco, tanti anni prima.
Tutto si risolve. Dopo quindici secondi d'attonito silenzio, un grido sale dagli uomini, vigliacchi solo dieci minuti prima, ma divenuti ora una folla combattiva, cuori e braccia rinvigorite da quel chiaro segno di perdono e di approvazione da parte di Zeus. Senza aspettare altro, cinquantamila achei e argivi e loro alleati si schierano di nuovo dietro i propri condottieri, attaccano di nuovo i cavalli, spingono i cocchi sui ponti di terra che ancora attraversano i fossati di difesa e la battaglia riprende.
Diventa l'ora dell'arciere.
Anche se Diomede guida il contrattacco, seguito da presso dagli Arridi Agamennone e Menelao, seguiti a loro volta da Aiace il Grande e Aiace il Piccolo, e anche se questi eroi, scagliando lance e vibrando fendenti delle corte spade, esigono il loro tributo dai troiani, il combattimento ora si accentra intorno all'arciere acheo Teucro, figlio bastardo di Telamone e fratellastro di Aiace il Grande.
Teucro è sempre stato considerato un ottimo arciere e nel corso degli anni l'ho visto colpire decine di troiani, ma oggi è proprio la sua giornata alla ribalta. Lui e Aiace vanno a ritmo: Teucro se ne sta accucciato al riparo dello scudo del fratellastro (Aiace il Grande adopera un enorme scudo rettangolare che secondo gli studiosi di storia militare non era in uso ai tempi della guerra di Troia) e, quando Aiace alza lo scudo, scaglia da sotto una freccia nelle file troiane distanti una sessantina di metri. Oggi pare proprio che non riesca a sbagliare un tiro.
Per primo uccide Orsiloco, piantandogli nel cuore una freccia con barbigli. Poi uccide Ofeleste, gli centra con una freccia l'occhio destro non appena il condottiero troiano scruta da sopra lo scudo di cuoio. Poi Detore e Cromio cadono colpiti a morte da due tiri rapidi e precisi. Ogni volta che Teucro scaglia una freccia, i troiani rispondono con frecce e lance nel vano tentativo di uccidere l'arciere, ma Aiace il Grande protegge se stesso e il fratellastro e con l'ampio scudo devia ogni proietto.
La gragnuola troiana ha una pausa, Aiace alza lo scudo e Teucro trafigge Licofonte, principe della sua lontana città, ma lo ferisce soltanto. Mentre accorrono i soccorritori, Teucro pianta una seconda freccia nel fegato del caduto.
Poi cade Amopaone, figlio di Poliemone, colpito alla gola da una freccia di Teucro. Il sangue schizza alto e il possente Amopaone cerca di alzarsi, ma è inchiodato al terreno dalla freccia e in meno di un minuto muore dissanguato, tra spasmi sempre più deboli. Gli achei lanciano grida di giubilo. Io conosco... conoscevo... Amopaone, solito pranzare nella piccola taverna all'aperto dove spesso m'incontravo con Nightenhelser, e varie volte avevamo scambiato quattro chiacchiere. Una volta Amopaone mi raccontò che suo padre, Poliemone, aveva conosciuto Odisseo prima della guerra e in una circostanza, viaggiando a Itaca per unirsi agli amici greci in una caccia, aveva ucciso un cinghiale che aveva squarciato la gamba del greco e lo avrebbe finito se la lancia avesse mancato il bersaglio. Ancora oggi Odisseo porta la cicatrice di quella ferita.
Aiace si acquatta, tenendo il massiccio scudo metallico come un tetto a proteggere se stesso e il fratellastro, e le frecce troiane grandinano contro il riparo. Aiace si alza e solleva lo scudo: Teucro uccide Melanippo, lontano ottanta metri; la freccia entra nell'inguine del troiano, che cade a terra, e gli fuoriesce dall'ano. I suoi compagni si scostano di un passo e fanno una smorfia, mentre Melanippo si contorce sul terreno e muore. Gli achei lanciano altre grida di giubilo.
Con un volteggio Agamennone scende dal cocchio e incoraggia a gran voce Teucro, gli promette che potrà scegliere per secondo fra i tripodi o i cavalli di razza (se Zeus e Atena gli concederanno di saccheggiare i tesori di Troia, dice); poi gli promette anche una bellissima donna troiana, a piacimento, da portare a letto, forse addirittura la moglie di Ettore, Andromaca.
Teucro si irrita per l'offerta di Agamennone. «Figlio di Atreo, pensi che, spronato dalle tue parole di bottino, m'impegnerei più di quanto non mi stia impegnando? Tiro già con la massima rapidità e precisione. Otto frecce, otto cadaveri.»
«Mira a Ettore!» grida Agamennone.
«È quello che sto facendo» replica Teucro, rosso in viso. «Ogni volta miro a lui, ma non riesco a colpire quel figlio di puttana!»
Agamennone tace.
Quasi in risposta alla sfida, all'improvviso Ettore spinge il cocchio davanti alle prime file troiane, nel tentativo di rincuorare i suoi uomini scoraggiati dalla strage dell'arciere acheo.
Stavolta Aiace non si prende la briga di spostare lo scudo: Teucro si alza in piedi, tende l'arco, mira con cura e scocca la freccia.
Il dardo manca di un palmo il cuore di Ettore e colpisce invece Gorgitione, figlio di Priamo, che sta appena dietro il cocchio di Ettore. Gorgitione si ferma, pare sorpreso, guarda l'asticciola sporgente e l'impennaggio, come se si credesse vittima di uno scherzo da caserma; poi la testa pare diventare troppo pesante anche per un collo massiccio come il suo e gli si affloscia sulla spalla, sotto il peso dell'elmo; Gorgitione crolla cadavere sulla sabbia insanguinata.
«Maledizione!» grida Teucro e scocca un'altra freccia. Ora Ettore è il più vicino dei troiani, girato verso l'acheo.
La freccia colpisce in pieno petto Archettolemo, fido auriga di Ettore. I cavalli, per quanto addestrati alla battaglia, s'impennano e saltano, mentre su di loro schizza il sangue di Archettolemo che cade all'indietro dal cocchio, nella polvere.
«Cebrione!» chiama Ettore, afferrando le redini, e gli chiede di fargli da auriga. Mentre Cebrione, suo fratello, un altro bastardo del licenzioso Priamo, balza sul cocchio, Ettore salta a terra. Stravolto di rabbia e di dolore per la morte del fido Archettolemo, corre nella terra di nessuno, chiaro bersaglio per Teucro, e raccoglie il sasso più grosso e tagliente che riesce ad alzare con una mano sola.
Pare avere dimenticato tutte le sottigliezze della guerra, delle quali tante volte si è vantato, ed essere tornato a tattiche da uomo delle caverne: alza il braccio sinistro e lo porta indietro al massimo, nella tipica posa, penso, del famoso lanciatore mancino di baseball Sandy Koufax. Quindi Ettore è ambidestro: fino a oggi non l'avevo notato.
Teucro scorge l'occasione, prende dalla faretra un'altra freccia e tende l'arco, mirando al cuore di Ettore, sicuro di fare un tiro, forse due, prima che Ettore lanci il sasso.
Si sbaglia. Ettore lancia con forza, rapidità e precisione.
Il sasso colpisce Teucro alla clavicola, proprio accanto alla gola, un attimo prima che la freccia lasci la corda. Ossa si spezzano. Tendini si strappano. La mano di Teucro diventa inerte, la corda scatta e la freccia si conficca nel terreno fra i sandali dell'arciere.
Ettore si precipita avanti, sparpagliando achei come pula, e gli arcieri troiani lanciano una salva di frecce contro Teucro caduto, ma Aiace il Grande non abbandona il fratello: lo copre con lo scudo ampio come una parete, mentre altri achei respingono i fanti troiani. Al richiamo di Aiace (un muggito, in realtà), Mecisteo e Alastore accorrono e portano il gemente arciere acheo al di là del fossato, nella relativa sicurezza all'ombra delle concave navi.
I quindici minuti di fama di Teucro sono finiti.
Da questo momento la situazione peggiora rapidamente per i greci. Ettore considera il fatto d'essere sfuggito a tutte le frecce un altro segno dell'amore e dell'approvazione di Zeus e guida i suoi uomini a ripetute cariche contro gli scoraggiati achei in ritirata.
Agamennone, Menelao e gli altri principi che solo qualche ora fa hanno condotto con gioia i propri uomini alla battaglia, adesso sono davvero abbattuti. Sulle prime gli achei pensano solo alla fuga e non presidiano le difese, il fossato e le palizzate e il muro alzato alla bell'e meglio, e solo un fattore impedisce ai troiani di bruciare subito le navi: il sole è tramontato, il buio è calato all'improvviso.
Mentre gli achei corrono da tutte le parti in confusione (alcuni già preparano le navi per la partenza, altri con sguardo vacuo se ne stanno seduti sotto shock), Ettore fa la sua scena alla Enrico V, va su e giù per le file troiane, instancabile; sprona i guerrieri a continuare il massacro e, sorta l'alba, invia in città uomini a prendere bestiame da macellare come sacrificio agli dèi e per imbandire un banchetto, ordina che siano portate razioni di vino col miele, fa arrivare carri con pane appena sfornato che gli affamati troiani assalgono come se fosse Agamennone in persona, fa accendere centinaia di fuochi di guardia proprio al di là delle difese achee, in modo che i greci non dormano.
Mi metto l'Elmo di Ade e mi aggiro, invisibile, fra i troiani.
«Domani» grida Ettore ai suoi uomini esultanti «sventrerò Diomede, di fronte ai suoi stessi uomini, come un pesce annaspante... se non sarà già fuggito stanotte. Con la punta della lancia gli spezzerò la spina dorsale e poi inchioderemo sopra le porte Scee la testa di quello spaccone presuntuoso!»
I troiani lanciano grida di giubilo. I fuochi gettano faville nel cielo, su, verso le ardenti stelle. Invisibile a uomini e dèi, passo di nuovo sul ponte del fossato, serpeggio fra i pali appuntiti e torno fra gli scoraggiati greci.
Per me è tempo di prendere una decisione. Agamennone ha già convocato l'assemblea dei suoi condottieri e discute su che cosa fare adesso: fuggire o inviare l'ambasceria da Achille?
Ormai non posso tornare indietro. Mi morfizzo in Fenice, il fedele precettore mirmidone di Achille, e mi avvio sulla sabbia che si rinfresca, per prendere parte al consiglio.
"Se decidi di cambiare il nostro destino, devi trovare il fulcro."
28
BACINO DEL MEDITEREANEO
Savi seguì la Breccia atlantica che tagliava l'oceano, a volte volando al di sotto della muraglia d'acqua, in un continuo saliscendi ogni pochi chilometri per evitare che il sonie urtasse la rete di cavi elettrici che intersecavano la Breccia come tubature trasparenti in un lungo corridoio verde.
Sdraiato bocconi alla sinistra di Savi, Daeman, osservando Harman nel posto alla destra della donna, fu colpito dalla sua espressione torva e dal vuoto negli incavi per i passeggeri dietro di loro. Pensò alle ultime ventiquattr'ore.
Pareva che Harman e Ada avessero litigato, quando il sonie aveva lasciato la zona dei grandi alberi. Sulle prime Daeman se n'era rallegrato. Non sapeva quale fosse la causa del litigio, ovviamente, ma era chiaro che, dopo la passeggiata nel bosco, i due erano agitati: Ada pareva fredda e distante, ma dentro di sé ribolliva; Harman era chiaramente perplesso. Tuttavia, dopo le ore di volo per raggiungere villa Ardis e gli eventi lì accaduti (e la sua stessa decisione di continuare in quella ricerca insensata), Daeman vedeva la tensione fra Harman e Ada solo come un'altra fonte di preoccupazione.
Erano giunti a villa Ardis nel tardo pomeriggio. Dall'alto, la tenuta e il terreno parevano diversi, per lo meno a Daeman, anche se la configurazione delle colline, della foresta, dei campi e del fiume era proprio come la ricordava. Ogni volta che pensava al picnic giù al fiume, per quella sciocca esibizione di colata di metallo fuso fatta da Hannah, gli tornava alla mente il dinosauro che lo assaliva e il cuore cominciava a battergli più forte.
«Questa zona era chiamata Ohio, nell'ultima parte dell'Età Perduta» aveva detto Savi, mentre facevano un ampio giro e poi perdevano quota. «Mi pare, almeno.»
«Credevo fosse chiamata Nord America» aveva replicato Harman.
«Anche. Avevano più nomi del necessario per indicare i luoghi.»
Erano atterrati a cinquecento metri da villa Ardis, in un pascolo a nord di un filare d'alberi frangivento. Daeman aveva di nuovo bisogno di andare al gabinetto, ma non se la sentiva proprio di percorrere a piedi tutta la strada fino alla villa, con il rischio di incontrare un dinosauro.
«Non c'è pericolo» aveva detto Ada, brusca, nel vedere che Daeman, l'unico rimasto a bordo, esitava a scendere dal sonie. «A tre o quattro chilometri dalla villa ci sono voynix di pattuglia lungo tutto il perimetro.»
«Quanto distava da qui il luogo del picnic al metallo fuso di Hannah?» aveva ribattuto Daeman.
«Cinque chilometri e mezzo» aveva risposto Hannah. Era in piedi accanto a Odisseo, dietro il sonie.
Ada si era rivolta a Savi. «Sei sicura di non voler venire in casa?»
«Non posso» aveva risposto la vecchia. Aveva teso la mano e dopo un secondo Ada gliel'aveva stretta. Daeman non aveva mai visto prima due donne stringersi la mano. «Aspetterò qui Harman e Daeman» aveva soggiunto Savi.
Ada aveva guardato Harman. «Tu vieni a villa Ardis per qualche minuto, vero?»
«Solo per salutare.» Avevano continuato a guardarsi, senza abbassare gli occhi.
«Ci muoviamo, allora?» aveva detto Daeman. S'era reso conto di avere usato un tono piagnucoloso, ma se n'era fregato. Doveva andare.
Allora tutti, tranne Savi, si erano incamminati verso la villa, passando nel campo d'erba alta fino alla cintola, evitando qua e là un bovino di cui scorgevano solo la testa (Daeman girava alla larga dalle mucche perché si sentiva a disagio in vicinanza di grossi animali), quando a un tratto un voynix solitario era sbucato dal filare d'alberi di fronte a loro.
«Era quasi ora» aveva detto Daeman. «Questa camminata è assurda.» Aveva gesticolato verso la sagoma di ferro e cuoio. «Tu! Torna alla villa a prendere due grossi calessi per portarci laggiù!»
Incredibilmente il voynix non aveva badato a Daeman e aveva continuato a camminare verso il gruppetto o, per essere precisi, verso Odisseo.
Questi aveva spinto Hannah lontano da sé, mentre il voynix privo d'occhi s'avvicinava lentamente.
«È solo curioso» aveva detto Ada, ma in tono non molto convinto. «Probabilmente non ha mai...»
Il voynix era già a un metro e mezzo, quando Odisseo aveva estratto la spada, attivato col pollice la lama ronzante e vibrato un colpo a due mani, tagliando in diagonale il presunto impenetrabile guscio pettorale e il braccio sinistro del voynix. Per un secondo il voynix era rimasto lì, in apparenza sorpreso quanto i quattro umani per il comportamento di Odisseo, ma poi la metà superiore della creatura era scivolata di lato, si era inclinata ed era caduta a terra, con movimenti spasmodici del braccio sinistro. La parte inferiore del tronco e le gambe erano rimaste in piedi per vari altri secondi e poi erano ruzzolate nell'erba.
Per un minuto c'era stato silenzio, rotto solo dal fruscio del vento nell'erba alta. Poi Harman aveva gridato: «Perché diavolo l'hai fatto?». Un fluido blu, denso come sangue, era colato dappertutto.
Odisseo aveva indicato il braccio destro del voynix, ancora attaccato alla parte inferiore del corpo. Mentre ripuliva con l'erba la spada, aveva detto: «Aveva estratto le lame per uccidere».
Era vero. Radunatisi intorno al voynix abbattuto, i quattro avevano visto le lame (adoperate per difendere gli esseri umani da pericoli come i dinosauri) dove di norma c'erano i manipolatori.
«Non capisco» aveva detto Ada.
«Non ti ha riconosciuto» aveva spiegato Hannah, scostandosi ancora di un passo da Odisseo. «Forse ti ha ritenuto una minaccia per noi.»
«No» aveva detto Odisseo, rimettendo nel fodero la spada.
Daeman, sgomento e affascinato, aveva fissato la sezione trasversale del voynix: morbidi organi bianchi, una profusione di tubicini blu, agglomerati di quelli che parevano grappoli rosa, sicuramente non i meccanismi e gli ingranaggi che aveva sempre immaginato sì trovassero all'interno di un voynix di servizio. L'improvvisa e rapida violenza e ora il biancastro sangue visibile avevano fatto rischiare a Daeman di perdere il controllo delle viscere, impazienti di liberarsi. «Su, andiamo» aveva detto e si era incamminato svelto verso villa Ardis.
Gli altri avevano frainteso e, credendo che volesse prendere il comando, l'avevano seguito.
Solo dopo avere usato la toilette, avere trovato il tempo di fare una doccia, radersi, ordinare al più vicino servitore di portargli abiti puliti e avere girato in cucina alla ricerca di qualcosa da mangiare, Daeman si era reso conto che era follia andare ancora con Harman e con quella vecchia strega pazza. A quale scopo?
Villa Ardis, malgrado l'assenza di Ada (o forse proprio per questo) era piena di amici che vi si erano faxati per fare visita e festeggiare. I servitori li accontentavano con cibi e bevande. I giovani, comprese diverse belle ragazze che Daeman aveva conosciuto in altre feste, in altri luoghi, nella vita felice prima di Harman e di quella stupida ricerca, facevano partite a pallacerchio nell'ampio prato in pendenza. La serata era piacevole, ombre lunghe sull'erba, nell'aria risate come tintinnio di campanelle e la cena preparata da servitori sul lungo tavolo sotto il gigantesco castagno.
Daeman si disse che poteva restare lì, consumare un pasto come si deve e prendersi una buona notte di sonno o, meglio ancora, chiamare un voynix per la breve corsa in calesse fino al portale fax e andare a letto a casa sua a Cratere Parigi, dopo una cenetta di mezzanotte preparata da sua madre. Gli mancava, sua madre: per più di due giorni non era stato in contatto con lei. Guardò il voynix nella curva del vialetto a lato della grande villa e sentì una punta d'ansia: il gesto di Odisseo, la distruzione di quel voynix, era stato ingiustificato e folle. Una persona normale non danneggia né distrugge i voynix, come non incendia una troika né demolisce il proprio domi. Era un gesto insensato, pensò Daeman, e un altro motivo che avrebbe dovuto spingerlo subito lontano da quella gente.
Uscì nel vialetto e vide da una parte Harman e Ada che parlavano sottovoce, ma in tono pressante. Più in giù nel pendio a prato, Hannah presentava Odisseo a vari ospiti incuriositi. I voynix si tenevano a grande distanza da Odisseo, ma Daeman non capì se per caso o di proposito. Si chiese se i voynix comunicassero tra loro e, in caso affermativo, in che modo. Non aveva mai sentito uno di loro emettere suoni.
Indicò a gesti a un voynix di portare un calessino proprio mentre la discussione tra Harman e Ada terminava: lei rientrò in casa a passo deciso, Harman girò sui tacchi e attraversò il vialetto per tornare nei campi e al sonie. Si avvicinò a Daeman, con un'espressione così truce che quest'ultimo arretrò di qualche centimetro.
«Vieni con noi?»
«Ah... be'... no» balbettò Daeman. Il voynix si avvicinò al piccolo trotto, tirandosi dietro il calessino a ruota singola, con un luccichio di selleria nella luce della sera e un ronzio di giroscopi.
Harman si girò senza dire altro e si inoltrò nel campo dietro la villa.
Daeman salì sul calessino, ordinò al voynix: «Portale fax» e si appoggiò allo schienale, mentre il veicolo girava nel vialetto, con uno scricchiolio di ghiaia sotto la ruota. Una delle giovani donne sul prato (a Daeman pareva di ricordare che si chiamasse Oelleo) gli gridò un saluto. Il calesse proseguì verso la strada, col silenzioso voynix che trottava fra le stanghe.
«Alt» disse Daeman. Il voynix si fermò di colpo, senza mollare le stanghe. Il giroscopio interno continuò a ronzare piano.
Daeman si girò a guardare dietro di sé villa Ardis, ma non vide Harman, già lontano fra gli alberi. Senza una ragione particolare si ritrovò a chiedersi dove avesse conosciuto Oelleo: a una festa a Bellinbad due estati prima? Alla quarta Ventina di Verna, a Chom, solo qualche mese fa? A una delle feste che lui organizzava a Cratere Parigi e che duravano tutta la notte?
Non riusciva a ricordarlo. Aveva dormito con lei? Aveva un'immagine di Oelleo nuda, ma forse gli era rimasta da una festa in piscina o da una delle mostre d'arte vivente tanto di moda l'inverno precedente. Non riusciva a stabilire se si era portato a letto quella donna. Ce n'erano talmente tante!
Ripensò ai festeggiamenti per la seconda Ventina di Tobi, a Ulanbat, solo tre giorni prima. Un ricordo sfocato: una confusione di risa e di sesso e di bevande che si mischiava con tutte le altre feste nei pressi di tutti gli altri nodi fax. Ma quando cercò di ricordare la Valle Secca in... come si chiamava? Antartide?... o l'iceberg o il ponte Golden Gate sopra Machu Picchu o perfino la stupida foresta di sequoie, tutto era chiaro, netto, preciso.
Scese dal calessino e s'inoltrò nei campi. "È una follia" pensò. "Follia, follia, follia." A metà strada dalla linea degli alberi, si lanciò in una corsa goffa e sgraziata.
Quando raggiunse il margine più lontano del campo, era senza fiato e sudava copiosamente. Il sonie era già andato via, rimaneva solo una depressione nell'erba alta vicino al muretto di pietra dove era atterrato.
«Maledizione!» imprecò Daeman, guardando il cielo della sera, vuoto a parte gli anelli equatoriale e polare in movimento. «Maledizione.» Si accasciò a sedere sul muretto di pietra, scivoloso per il muschio. Alle sue spalle, il sole tramontava. Chissà perché, a Daeman venne voglia di piangere.
Il sonie giunse da nord, a bassa quota, sfiorando gli alberi; calò in picchiata e rimase sospeso a tre metri da terra.
«Ho pensato che forse avresti cambiato idea» disse Savi. «Vuoi uno strappo?»
Daeman si alzò.
Avevano volato a est nel buio, salendo tanto in alto che le stelle e gli anelli orbitali illuminavano la parte superiore delle nubi già accese da fulmini, che s'increspavano come visibili peristalsi in interiora color latte. Quella notte fecero sosta vicino alla costa e dormirono in una bizzarra capanna sui rami di un albero, composta di piccole domi-case indipendenti e collegate da piattaforme e scale a chiocciola. La struttura aveva servizi igienici, ma mancavano servitori e voynix; e, nelle vicinanze, non c'erano altre persone né abitazioni.
«Hai molti posti come questo dove fermarti?» chiese Harman a Savi.
«Sì» rispose la vecchia. «Lontano dai vostri trecento nodi fax, la maggior parte della Terra è disabitata, sai. Dagli uomini, almeno. Qua e là ho dei posticini cui sono affezionata.»
Erano seduti fuori, in una sorta di piattaforma da pranzo a metà dell'alto albero. Sotto di loro, lucciole svolazzavano nella radura erbosa ingombra di enormi macchine antiche arrugginite, che erano state in gran parte reclamate dalle piante e dalle felci e dal terriccio del pendio della collina. La luce degli anelli filtrava tra le foglie e dipingeva di bianco l'erba alta. La tempesta sorvolata poco prima non era ancora giunta così lontano a est e la notte era calda e serena. Anche se mancavano i servitori, nella capanna c'erano frigoriferi pieni di cibo e Savi aveva provveduto a cucinare tagliatelle, carne e pesce. Daeman cominciava quasi ad abituarsi alla bizzarra idea di prepararsi il proprio cibo.
A un tratto Harman chiese a Savi: «Sai perché i post-umani hanno lasciato la Terra e non sono più tornati?».
Daeman ripensò all'esperienza patita nella radura delle sequoie quello stesso giorno e al solo ricordo sentì un inizio di nausea.
«Sì» ammise Savi «credo di saperlo.»
«Ce lo dirai?» chiese Harman.
«Non adesso» rispose la vecchia. Si alzò e risalì la scala a chiocciola lungo il tronco fino a un domi illuminato, dieci metri più in alto.
Harman e Daeman si guardarono nella fioca luce, ma non avevano niente da dirsi; alla fine, ognuno si ritirò in un domi per riposare.
Seguirono a grande velocità la Breccia che tagliava l'Atlantico, virarono a sud prima di raggiungere la terraferma e volarono in parallelo a quelle che Savi chiamò le Mani d'Ercole.
«Sorprendente» disse Harman, alzandosi quasi in ginocchio per guardare alla loro sinistra, mentre volavano verso sud.
Daeman dovette convenire. Fra una grossa montagna dalle pendici a lastroni a nord (che Savi chiamò Gibilterra) e una montagna più bassa circa quindici chilometri a sud, l'oceano si fermava, semplicemente, e restava fuori del profondo bacino che si estendeva a est, trattenuto da una serie di enormi mani d'oro che s'innalzavano dal letto marino. Ciascuna mano era alta più di centocinquanta metri e le dita allargate impedivano alla muraglia d'acqua dell'Atlantico di riversarsi nel bacino del Mediterraneo prosciugato che si perdeva, come una valle sempre più profonda, nelle nubi e nelle nebbie verso est.
«Perché queste mani?» chiese Daeman, mentre raggiungevano la terraferma sul lato sud del bacino ammantato di nebbia e viravano di nuovo a est. «I post non potevano usare campi di forza per trattenere il mare, come hanno fatto per la Breccia?»
Savi scosse la testa. «Le Mani d'Ercole c'erano già prima che nascessi e i post non ci hanno mai spiegato il perché di quella scelta. Ho sempre sospettato che l'abbiano fatto solo per capriccio.»
«Per capriccio» ripeté Harman. L'idea parve turbarlo.
«Sei sicura che non possiamo volare direttamente sopra il bacino?» chiese Daeman.
«Sono sicura» rispose Savi. «Il sonie cadrebbe giù come una pietra.»
Per tutto il pomeriggio sorvolarono paludi, laghi, foreste di felci e larghi fiumi in un territorio che Savi chiamò Sahara settentrionale. In breve le paludi rimpicciolirono fino a sparire del tutto e il terreno divenne più arido, più roccioso. Branchi di centinaia di animali dal mantello a strisce (non dinosauri, ma grossi come dinosauri) si spostavano per le praterie e le alture rocciose.
«Che animali sono?» chiese Daeman.
Savi scosse la testa. «Non ne ho idea.»
«Se fosse qui, Odisseo probabilmente ne vorrebbe uccidere uno da mangiare a cena» disse Harman.
Savi ridacchiò.
Nel tardo pomeriggio si abbassarono di quota, girarono intorno a un'insolita città cinta di mura, posta sulle alture a soli quaranta chilometri dal bacino del Mediterraneo, e si posarono su una piana rocciosa a ovest della città stessa.
«Che posto è questo?» chiese Daeman. Non aveva mai visto mura né edifici così vecchi: anche da lontano, mettevano a disagio.
«Si chiama Gerusalemme» rispose Savi.
«Credevo che saremmo scesi nel bacino alla ricerca di astronavi» disse Harman.
Savi sbarcò dal sonie e si stiracchiò. Pareva molto stanca, pensò Daeman, ma a pensarci bene aveva pilotato il velivolo per due giorni filati.
«Infatti» rispose Savi. «Qui troveremo un mezzo di trasporto. E c'è una cosa che voglio mostrarvi al calar del sole.»
Daeman la ritenne una promessa di cattivo augurio, ma seguì Savi e Harman per la piana rocciosa, fra macerie di quelli che forse un tempo erano i sobborghi o le zone più recenti della città vecchia cinta di mura, ma che adesso erano una spianata in salita, pavimentata di pietre consumate e ridotte a ciottoli. Savi li guidò fino a una porta nelle mura, che varcarono, e mentre camminavano proseguì in una narrazione in gran parte priva di senso. L'aria era secca e rinfrescante, la luce del sole basso all'orizzonte dava colore agli antichi edifici.
«Questa era la porta di Giaffa» disse Savi, come se quella parola avesse un significato per loro. «E questa è via Davide, che un tempo separava il quartiere cristiano da quello armeno.»
Harman diede un'occhiata a Daeman. Era chiaro, pensò Daeman, che nemmeno il vecchio, così istruito e così orgoglioso della sua inutile capacità di leggere, aveva mai udito le parole "cristiano" o "armeno". Ma Savi continuò a blaterare, indicò fra le rovine alla loro sinistra un edificio chiamato chiesa del Santo Sepolcro e nessuno dei due la interruppe con una domanda, finché Daeman non domandò: «Qui non ci sono voynix e servitori?».
«Adesso no» disse Savi. «Ma quando i miei amici Pinchas e Petra erano qui, negli ultimi minuti prima del fax finale, quattordici secoli fa, nei pressi del Muro occidentale c'erano decine di migliaia di voynix improvvisamente attivi.» Si fermò e guardò prima l'uno, poi l'altro. «Sapete, vero, che i voynix sbucarono dalla nube cronoclastica due secoli prima del fax finale, ma erano immobili, statue di ferro e di ruggine, non gli obbedienti servitori di adesso? È importante ricordarlo.»
«Sì, certo» disse Harman, con una traccia di condiscendenza nel tono, come se pensasse che la vecchia parlava a vanvera. «Ma hai detto che eri in un iceberg nei pressi dell'Antartide, quando avvenne il fax finale. Come sai dov'erano i tuoi amici e che cosa facevano i voynix?»
«Registrazioni farnet, proxnet e allnet» rispose Savi. Si girò e li guidò più avanti verso est lungo la strada.
Harman diede di nuovo un'occhiata a Daeman, quasi a condividere la preoccupazione per quei discorsi insensati, ma Daeman provò un impulso di... orgoglio? superiorità?... nel rendersi conto di sapere che cosa aveva voluto dire Savi quando aveva parlato di farnet e di proxnet. Si guardò la palma e accese la funzione di ricerca, ma non comparve nessun riquadro luminoso. Che cosa sarebbe accaduto, si chiese, se avesse visualizzato quattro rettangoli blu sopra tre cerchi rossi sopra quattro triangoli verdi per richiamare la funzione dati completi, come Savi gli aveva insegnato nella radura della foresta, il giorno prima?
Savi si fermò e disse, come se gli avesse letto nella mente: «Qui non ti conviene richiamare la funzione allnet, Daeman. Non saresti virtualmente immerso in interazioni di energia e microclima come nella foresta, qui a Gerusalemme. Ti troveresti di fronte a cinquemila anni di sofferenze, di terrore e di virulento antisemitismo».
«Antisemitismo?» ripeté Harman.
«Odio per gli ebrei» spiegò Savi.
Harman e Daeman si guardarono, perplessi. Quel concetto non aveva senso.
Daeman cominciava a rimpiangere d'avere cambiato idea. Era affamato. Il sole tramontava alle loro spalle. Lui non sapeva dove avrebbe dormito quella notte, ma sospettava che sarebbe stato un posto scomodo.
«Andiamo» disse Savi e li guidò per un altro isolato, sotto arcate di pietra, per uno stretto vicolo e poi in uno spiazzo dominato da un alto muro spoglio.
«È questo che siamo venuti a vedere?» chiese Daeman, deluso. Era un vicolo cieco, un cortile circondato da muri più bassi, edifici di pietra e quell'alto muro con una sorta di struttura circolare, metallica, appena visibile sulla sommità. Non c'era modo di salirvi, da lì.
«Pazienta un poco» disse Savi. A occhi socchiusi guardò il sole al tramonto. «Oggi è il Tisha b'Av,proprio come il giorno del fax finale.»
Con l'aria di chi è stufo di ripetere parole senza senso, Harman disse: «Tisha b'Av?».
«Il nove di Av»disse Savi. «Un giorno di lamentazioni. Sia il Primo sia il Secondo Tempio furono distrutti il Tisha b'Av e credo che i voynix abbiano costruito questo blasfemo Terzo Tempio il nove di Av nel giorno del fax finale.» Indicò la mezza cupola di metallo nero al di là del muro.
All'improvviso ci fu un rombo così profondo che Daeman si sentì battere i denti e tremare le ossa. Lui e Harman arretrarono di un passo, spaventati, nell'aria così carica di ozono e di elettricità statica che a Daeman si rizzarono i capelli e ondeggiarono come erba alta sotto un forte vento; con un esplosivo schianto più veloce e più forte di un colpo di fulmine, una solida landa di luce azzurra pura, brillante, accecante, larga una ventina di metri, saettò dalla mezza cupola di metallo nero, trafisse il delo della sera e scomparve, dritta come una frecda, nello spazio, mancando per un pelo l'anello equatoriale orbitante nella sua eterna rotazione verso est.
29
CANDOR CHASMA
Per otto giorni e otto notti di Marte la tempesta di polvere sollevò onde alte dieci metri, ululò fra il sartiame e spinse la piccola feluca a nord, verso il lato sottovento della costa e verso la morte di tutto il suo equipaggio, moravec compresi.
I piccoli omini verdi a bordo erano bravi marinai, ma di notte cessavano di funzionare e ora restavano inerti anche per gran parte del giorno, perché le nubi di polvere oscuravano il sole. Mahnmut, quando i POV si ritiravano in cantucci bui sotto i ponti e si raggomitolavano in una nicchia per non essere sballottati da tutte le parti, aveva l'impressione di navigare in una nave di morti, come nel Dracula di Bram Stoker, dove la nave giunge in porto con un equipaggio di cadaveri.
Le vele della feluca, di un polimero leggero e resistente, non di tela, si erano ridotte a brandelli per la violenza del vento da sudest e per la sabbia scagliata a forte velocità. Il ponte non era più un luogo sicuro dove trattenersi; durante un breve intervallo di luce, Mahnmut, con l'aiuto di venti POV, praticò un buco nella tolda, calò Orphu sul ponte inferiore e costruì per l'amico uno schermo di legno e di tela cerata che lo riparasse dal vento insistente. Anche lui, quando trascorreva troppo tempo ad aiutare i POV sulla tolda, sentiva la sabbia portata dal vento entrargli nelle commessure e nei meccanismi, perciò, appena poteva, scendeva sul ponte inferiore e stava a fianco di Orphu, accertandosi che il suo amico fosse ben legato e fissato, mentre la feluca s'inclinava di quaranta gradi da una parte e dall'altra e l'acqua, ora mista a sabbia e rossa come sangue, penetrava in ogni fessura. Dieci o dodici dei quaranta POV a bordo azionavano le pompe a mano, ogni volta che erano coscienti, per prosciugare la sentina e i ponti inferiori, mentre nelle lunghe notti Mahnmut lavorava da solo a una pompa.
Prima che le vele, il sartiame e l'ancora restassero danneggiati, i POV avevano sfruttato al meglio la burrasca: avevano lavorato duramente, bordeggiando, navigando contro vento, con le onde che si abbattevano sulla prua, per avanzare il più possibile nel mare interno centrale, chiaramente preoccupati per le scogliere alte un migliaio di metri alle loro spalle a nord, e avevano coperto centinaia di chilometri nei primi due giorni di tempesta. Adesso si trovavano più o meno fra Coprates Chasma e le isole di Melas Chasma, con l'enorme complesso di canyon di Candor Chasma da qualche parte più avanti a dritta.
Poi la burrasca era peggiorata e il cielo era divenuto più scuro; i POV si erano rifugiati, legandosi in posti sicuri sotto coperta e avevano smesso di funzionare nel buio della tempesta di sabbia; le ancore di prua e di poppa (due complesse strutture curve di polimero sintetico fissate a cavi al traino centinaia di metri sotto la nave) avevano ceduto nello stesso giorno. Mahnmut sapeva, avendole viste in precedenza, che a nord c'erano scogliere alte un migliaio di metri e, da qualche parte, l'ampia apertura dei canyon allagati di Candor Chasma; ma per la carica elettrostatica della tempesta di sabbia non poteva usare il localizzatore e da due giorni non aveva più visto una stella o il sole per fare il punto. Per quel che ne sapeva, le scogliere e la fine della loro corsa potevano trovarsi anche solo a mezz'ora di distanza.
«C'è il rischio di colare a picco?» chiese Orphu, il pomeriggio del quarto giorno.
«Le probabilità sono buone» rispose Mahnmut. Non voleva mentire all'amico, perciò aveva cercato di formulare la frase nel modo più ambiguo possibile.
«Puoi nuotare in questa burrasca?» chiese Orphu. Aveva capito che quel "buone" era una cattiva notizia per tutti e due.
«Non proprio» disse Mahnmut. «Però posso nuotare sotto le onde.»
«Andrò a fondo come il proverbiale sasso» disse Orphu, con il leggero rombo che equivaleva a una risatina. «Quanto hai detto che è profonda, qui, la Valles Marineris?»
«Non l'ho detto.»
«Be', dimmelo ora.»
«Circa sette chilometri» rispose Mahnmut, che l'aveva scandagliata col sonar proprio un'ora prima.
«Rimarresti schiacciato, a quella profondità?»
«No. Ho lavorato a pressioni superiori. Sono fatto apposta.»
«E io rimarrei schiacciato?»
«Ah... non so» rispose Mahnmut. Era la verità, tuttavia sapeva che la serie di moravec come Orphu era stata progettata per lo spazio privo di pressione e per occasionali incursioni nelle zone superiori di un gigante gassoso o nei pozzi sulfurei di Io, non per le micidiali pressioni di un mare salato profondo settemila metri. Era molto probabile che il suo amico sarebbe rimasto schiacciato come una lattina accartocciata oppure sarebbe semplicemente imploso molto prima di scendere ai tremila metri.
«C'è qualche possibilità di arrivare alla costa?» chiese Orphu.
«Non credo» rispose Mahnmut. «Le scogliere sono enormi, ripide, con massi giganteschi alla base. Le onde che vi si schiantano raggiungono ora i cinquanta o i cento metri di altezza.»
«Un'immagine interessante» disse Orphu. «C'è qualche possibilità che i POV ci portino al sicuro in un porto?»
Mahnmut lanciò un'occhiata in giro nel buio dei ponti inferiori. I POV erano al riparo, legati alle travi come tante bambole di clorofilla, braccia e gambe che sbattevano a tempo col violento rollio della nave. «Non lo so» disse e lasciò che dal tono trasparisse tutto il suo scetticismo.
«Allora sta a te farci superare questa situazione» disse Orphu.
Mahnmut s'impegnò al massimo per salvare tutti loro. Il quinto giorno, con il cielo di una tenebra sanguigna e col vento che ululava tra i brandelli delle vele, con i POV impilati come cataste di legno sotto coperta e la doppia ruota sul ponte posteriore legata per tenere dritto il timone, Mahnmut ammainò ciò che restava delle vele e prese lo spago e i grossi aghi che aveva visto usare dai POV per rammendare il polimero; solo che ora lui cuciva mentre la nave rollava di qua e di là, con onde di quindici metri che la colpivano di lato, facendola girare su se stessa, e con l'acqua che inondava la tolda.
Preparò per prima cosa un'ancora di fortuna, più piccola, e la dispiegò dal cavo dell'ancora prodiera per riportare la prua al vento, nel tentativo di evitare l'invisibile ma sempre presente costa sottovento dietro di loro. Aveva iniziato a rammendare la randa triangolare, quando i cavi del timone sotto il ponte si spezzarono. La feluca traballò, imbarcò parecchie enormi ondate d'acqua rossastra, si strappò da sopravvento, poi girò su se stessa e corse di nuovo a favore di vento, con alte onde che si abbattevano sul ponte di poppa. Quando il timone era partito, solo l'ancora di fortuna aveva impedito che la feluca si capovolgesse. Mahnmut andò a prua e lì, mentre le rosse nubi si squarciavano per un attimo e la feluca sormontava l'onda successiva, vide tra la spuma e l'oscurità le alte scogliere del lato nord della Valles Marineris. La nave sarebbe finita sulle rocce in meno di un'ora, se il sistema di governo non fosse stato aggiustato... e presto.
Mahnmut si procurò una fune, andò a poppa per accertarsi che il timone fosse ancora attaccato alla nave (lo era, ma oscillava liberamente sul massiccio cardano) e poi si arrampicò sulla gomena bagnata, fra le onde battenti, attraversò il ponte di mezzo, scivolò giù per le scalette fino al secondo ponte, trovò il centro di governo d'emergenza, una semplice piattaforma con carrucole dove i POV potevano manovrare la nave tirando le gomene della barra se, sopra, il meccanismo di governo era danneggiato, scoprì che le due grosse gomene erano allentate, scese un'altra scaletta nel buio del terzo ponte, accese i fari che aveva sul petto e sulle spalle per illuminare il cammino, cambiò i manipolatori in arnesi da taglio e aprì un foro nel ponte dove pensava che le gomene della barra si fossero rotte. Non aveva idea se era questo il modo in cui erano attrezzate le antiche feluche terrestri (immaginava di no) ma questa grossa feluca marziana era governata da una doppia ruota nell'alto ponte di poppa, che faceva girare due grosse funi di canapa che si dipartivano, correvano lungo ciascuna fiancata mediante un sistema di carrucole e poi si univano di nuovo per scorrere in quel lungo condotto di legno fino alla barra vera e propria che muoveva il timone. Nelle settimane di viaggio, Mahnmut aveva girato per la nave e studiato il sartiame e la disposizione dei vari sistemi di cavi. Se i grossi cavi, uno o tutt'e due, si erano rotti, sfilacciati dalla tensione della tempesta, forse sarebbe riuscito a saldarli, ma prima doveva arrivarci. Se si erano rotti più avanti verso la barra, dove non sarebbe potuto arrivare, tutti a bordo della feluca erano condannati. Mahnmut si domandò se sarebbe saltato giù all'ultimo momento, nuotando sotto i frangenti per superare le alte scogliere, cercando una zona più calma, da qualche parte lungo le migliaia di chilometri della costa di Candor Chasma, dove tirarsi all'asciutto. Una cosa era sicura: non avrebbe potuto portare con sé Orphu. Si infilò nel condotto delle funi della barra, accese i fari e guardò a prua e a poppa. Non riuscì a vedere i cavi.
«Va tutto bene?» chiese Orphu.
Mahnmut sobbalzò al suono della voce via radio nelle orecchie. «Sì» rispose. «Faccio una piccola riparazione al timone.» "Eccoli!" pensò. I cavi gemelli si erano spezzati, i segmenti di poppa erano a circa sei metri nello stretto condotto guida, quelli di prua si vedevano appena, dieci metri più in là. Mahnmut corse avanti e indietro, fracassando il fasciame di legno duro, estraendo dal condotto le sezioni dei cavi grossi come una coscia e tirandole verso il centro, usando ogni erg di energia dei suoi sistemi.
«Sei sicuro che vada tutto bene?» chiese Orphu.
Mahnmut ritrasse le lame da taglio ed estese tutti i manipolatori, commutando su "Massima precisione" il controllo dei motori. Cominciò a intrecciare i capi di spessa canapa, così velocemente che le dita metalliche divennero una macchia confusa nei raggi di fari alogeni che tagliavano il buio del terzo ponte. L'acqua sciaguattava avanti e indietro intorno a lui e su di lui, mentre la nave rollava all'indietro su ogni tremenda onda e poi scivolava lungo la parte posteriore di essa e straorzava nel cavo d'onda. Allora Mahnmut si preparava all'onda successiva che si abbatteva di nuovo sulla poppa, col fragore e la forza di un colpo di cannone. E sapeva che ogni onda indicava che la nave era molto più vicino alle rocce e alla scogliera.
«È tutto a posto» disse, con le dita che volavano, intrecciavano fili, usando i laser a bassa potenza nei polsi per saldare le fibre metalliche che correvano lungo la canapa logora. «Sono impegnatissimo.»
«Ti chiamerò per controllo fra qualche minuto» gli disse Orphu.
«Bene» fece Mahnmut, pensando: "Se non riesco a ripristinare il governo della feluca, fra una trentina di minuti saremo contro le rocce. Glielo dirò quindici minuti prima che succeda". «Sì, è una buona idea» trasmise. «Una chiamata di controllo fra qualche minuto.»
La rozza feluca (non aveva un nome) non era il Dark Lady,ma era di nuovo in grado di navigare e di essere pilotata. Sul ponte di poppa, gambe e piedi ben piantati per resistere al rollio e al beccheggio, Mahnmut si mise alla ruota, con le scogliere battute dalla tempesta visibili a meno di un chilometro dritto a prua, con le vele a brandelli da lui stesso rammendate tese sui due alberi. Il cavo della barra resse e il timone rispose. Mahnmut costrinse la nave a girarsi nel vento e chiamò Orphu per informarlo della situazione. Gli disse la verità: avevano corso il rischio che la feluca fosse sbattuta sugli scogli nel giro d'un quarto d'ora o forse meno, ma ora lui pilotava quella porca di nave, ammesso che ne valesse la pena.
«Bene, apprezzo la tua sincerità» disse Orphu. «Posso aiutarti in qualche modo?»
Mahnmut, caricando tutto il proprio peso sulla grossa ruota in modo che la nave puntasse verso l'onda in arrivo e non si capovolgesse, rispose: «Anche i suggerimenti mi farebbero comodo».
La nube di polvere non dava segno di sollevarsi né il vento pareva prossimo a diminuire di intensità. Gomene vibravano, pezzi di tela sbattevano e la prua scompariva in una muraglia di spuma bianca che colpiva anche Mahnmut, venti metri più indietro. Orphu disse: «"Di nuovo qui? Ma che ci avete a fare? Volete proprio che molliamo tutto e che coliamo a picco tutti quanti? Vi siete messi in testa di affogare?"».
Mahnmut impiegò qualche secondo a cogliere la citazione. Cavalcando l'onda successiva quasi a gravità zero, guardandosi indietro e vedendo le scogliere più vicino, richiamò alla memoria secondaria la Tempesta ed esclamò: «"Un accidente a quella tua golaccia, cane ringhioso, blasfemo, spietato!"».
«"Fatela voi, allora, la manovra!"»
«"Vatti a impiccare, rognoso cagnaccio! Alla forca, figliaccio di puttana, con questo tuo sbraitare da villano!"» disse Mahnmut, gridando per superare il rumore del vento e dell'onda, anche se per radio non serviva a niente gridare. «"Scommetto che paura d'affogare ce n'hai assai più tu, che tutti noi."»
«"Ma quello non s'affoga, garantito"» continuò Orphu ridendo «"fosse pur questo scafo men robusto e resistente d'un guscio di noce e facesse acqua come una baldracca che non può contenersi..." Mahnmut? Che cosa significa esattamente "una baldracca che non può contenersi"?»
«Una donna con le mestruazioni» rispose Mahnmut, tutto piegato sulla ruota per girarla a sinistra. Tonnellate d'acqua lo travolsero. Mahnmut non vedeva più le scogliere, dietro di lui, per la turbinante foschia rossa e per le onde alte, ma sentiva la presenza delle rocce.
«Oh!» disse Orphu. «Davvero imbarazzante. Dov'ero?»
«"Su, sottovento!"» suggerì Mahnmut.
«"Su, sottovento! Su, coi due velacci! Al largo ancora, via! Tenersi al largo!"»
«"Tutto è perduto! Tutto!"» recitò Mahnmut. «"Alle preghiere! Ormai non ci rimane che pregare! Perduto, tutto!"... Aspetta un momento!»
«Non ricordo: "Aspetta un momento!"» disse Orphu.
«No, aspetta tu un momento. Più avanti c'è un varco nella scogliera, un'apertura nella linea della costa.»
«Abbastanza grande da navigarvi?» chiese Orphu.
«È l'inizio del Candor Chasma» disse Mahnmut. «Una massa d'acqua più grande di Conamara Chaos su Europa.»
«Non ricordo quanto fosse grande Conamara Chaos» ammise Orphu.
«Più ampio di tutt'e tre i Grandi Laghi americani e la baia di Hudson messi insieme» disse Mahnmut. «Candor Chasma è in pratica un altro enorme mare interno che si apre a nord. Ci dovrebbero essere migliaia di chilometri quadrati dove manovrare. Niente spiaggia sottovento!»
«È un bene?» disse Orphu, chiaramente restio a sperarci troppo.
«Una possibilità di sopravvivenza» disse Mahnmut, tirando gomene per gonfiare di vento i resti della vela maestra. Attese che la nave fosse sulla cresta dell'onda successiva e mosse la ruota, facendo girare la pesante nave lentamente a dritta, spostando la prua verso l'apertura sempre più ampia nella scogliera. «Una possibilità di sopravvivenza» ripeté.
Tutto finì nel pomeriggio dell'ottavo giorno. Fino a una certa ora le nubi di polvere rimasero basse, correndo via a poppa; il vento continuò a infuriare e nel grande bacino di Candor Chasma l'acqua rimase bianca e mossa; l'ora seguente, dopo un'ultima pioggia color sangue, il cielo divenne azzurro, il mare tornò placido e i piccoli omini verdi emersero dalle nicchie e salirono sul ponte, come bambini che si sveglino da un riposante sonnellino.
Mahnmut era sfinito. Anche con un filo di ricarica che gli giungeva dalle celle solari portatili e di tanto in tanto una scarica dei loro cubi d'energia in esaurimento, era esausto dal punto di vista organico, mentale, cibernetico ed emotivo.
I POV parvero meravigliarsi per i resti delle vele rattoppate, per i cavi della barra saldati e per le altre riparazioni fatte da Mahnmut negli ultimi tre giorni. Poi si misero al lavoro, facendo funzionare le pompe della sentina, pulendo i ponti che parevano insanguinati, rattoppando altre vele, calafatando le tavole svergolate dello scafo e delle paratie, riparando alberi spezzati, sbrogliando cavi ingarbugliati e pilotando la nave. Mahnmut andò nel ponte di mezzo e controllò le operazioni di sollevamento di Orphu dal ponte inferiore fradicio d'acqua; aiutò a fissare il suo amico sul ponte e gli sistemò sopra un telone; poi trovò sul ponte di mezzo un posto caldo e soleggiato, appartato, con una paratia alle spalle e una matassa di corda di fronte che gli alleviavano un poco l'agorafobia, e lì si concesse di galleggiare in un mezzo torpore. Quando chiuse gli occhi, vedeva ancora le alte onde avvicinarsi, sentiva il ponte beccheggiare e udiva l'ululato del vento, anche se adesso intorno alla nave c'era mare calmo. Lanciò furtivamente un'occhiata. La nave navigava di nuovo a sud, bordeggiava nel calmo vento di sudovest e puntava verso l'ampia apertura dove il Candor Chasma sfociava nella Valles Marineris, nel punto detto Melas Chasma. Mahnmut spense di nuovo gli apparati visivi e si concesse un pisolino.
Si svegliò di colpo, perché aveva sentito un tocco sulla spalla. I quaranta POV sfilarono davanti a lui e ciascuno di loro, nel passare, lo sfiorò sulla spalla. Mahnmut usò il canale subvocale e riferì a Orphu il bizzarro comportamento degli omini verdi.
«Forse ti esprimono gratitudine per averli salvati» disse Orphu. «Io lo farei, se avessi ancora gambe e braccia per darti una pacca.»
Mahnmut rimase in silenzio, ma non era sicuro che fosse quella la ragione del contatto. Non aveva mai visto emozioni nei POV, nemmeno quando il loro interprete si era avvizzito ed era morto dopo la conversazione con lui, e trovava difficile credere che gli fossero grati, anche se erano marinai abbastanza esperti da capire che, senza il suo intervento, la loro nave sarebbe colata a picco.
«O forse pensano solo che sei fortunato e cercano di procurarsi un po' di fortuna toccandoti» soggiunse Orphu.
Prima che Mahnmut potesse esprimere la sua opinione su quella ipotesi, l'ultimo POV della fila, anziché dare un colpetto sulla spalla del moravec e passare oltre, si mise in ginocchio, prese la destra di Mahnmut e se la posò sul petto.
«Oh, no» gemette Mahnmut, rivolto a Orphu. «Vogliono di nuovo comunicare.»
«Bene» disse Orphu. «Abbiamo domande da fare.»
«Le risposte non valgono la morte di un altro di loro» replicò Mahnmut. Ritirò la mano con la stessa forza con cui il piccolo omino verde la tirava verso di sé.
«Potrebbe valerne la pena» disse Orphu «anche se l'unità POV subisce qualcosa di simile alla tua idea di morte, cosa della quale dubito. E poi, lo fa di sua iniziativa. Lasciagli stabilire il contatto.»
Mahnmut smise di opporsi e lasciò che il POV gli tirasse la mano verso il petto, dentro il petto.
Di nuovo provò la sconcertante sensazione di dita che penetravano nella carne e s'immergevano nella calda e densa soluzione salina, della mano che si chiudeva intorno al pulsante organo delle dimensioni di un cuore umano.
«Prova a stringere un po' meno, stavolta» suggerì Orphu. «Se la comunicazione avviene davvero mediante pacchetti molecolari di nanobyte organici, forse una superficie di contatto inferiore limita il volume dei loro pensieri.»
Mahnmut annuì, anche se si rendeva conto che Orphu non poteva vedere il suo cenno; poi si concentrò solo sulla bizzarra vibrazione che dalla mano gli risaliva lungo il braccio fino al cervello, mentre il piccolo omino verde iniziava la conversazione.
TI ESPRIMIAMO
GRATITUDINE
PER IL SALVATAGGIO
DELLA NOSTRA NAVE.
«Non c'è di che» disse a voce Mahnmut, concentrando i pensieri nel linguaggio parlato nello stesso tempo in cui condivideva lo scambio con Orphu sul canale a fascio compatto. «Ma voi chi siete? Come vi chiamate?»
ZEK.
Mahnmut non sapeva che cosa significasse quella parola. Sentì pulsare fra le dita l'organo di comunicazione del POV e provò l'impulso di lasciarlo, di estrarre la mano dal petto di quella creatura già condannata... ma ormai il gesto non sarebbe stato utile a nessuno dei due. Conosci questa parola... "Zek"? chiese a Orphu.
Un momento, trasmise Orphu. Accedo al terzo livello dii memoria. Ecco qui... da Una giornata di Ivan Denisovic. Termine dialettale collegato alla parola russa "sharashka": "uno speciale istituto scientifico o tecnico equipaggiato con prigionieri"; i prigionieri di quei campi di lavoro sovietici erano detti "zek".
Be', trasmise Mahnmut, non credo che questi POV marziani a base clorofilliana siano prigionieri di un regime terrestre che ebbe vita breve più di duemila anni fa. Lo scambio di battute con Orphu era avvenuto in meno di due secondi. Mahnmut si rivolse al piccolo omino verde: «Vuoi dirci da dove provenite?».
Stavolta la risposta non fu in parole, ma in immagini: campi verdi, cielo azzurro, un sole molto più grande di quello nel cielo marziano, una lontana e indistinta catena di montagne nell'aria densa. «La Terra?» disse Mahnmut, sorpreso.
NON LA STELLA NEL CIELO NOTTURNO DI QUI.
UNA TERRA DIVERSA.
Mahnmut rifletté sulla risposta, ma non seppe come formulare una domanda chiarificatrice, se non con un goffo: «Quale Terra, allora?».
Il piccolo omino verde rispose solo con le stesse immagini di campi verdi, di lontane montagne, di un sole come quello che si vede dalla Terra. Mahnmut sentiva che l'energia del POV si riduceva, che l'organo simile al cuore pulsava con minore vitalità. "Lo sto uccidendo" pensò, in preda al panico.
Chiedigli delle facce di pietra, trasmise Orphu.
«Chi è l'uomo raffigurato nelle facce di pietra?» chiese Mahnmut, obbediente.
IL MAGO.
QUELLO DEI LIBRI.
SIGNORE DEL FIGLIO DI SICORACE, CHE CI PORTÒ QUI.
IL MAGO È PADRONE PERFINO DI SETEBO,
DIO DELLA MADRE DEL NOSTRO SIGNORE.
Il mago! trasmise Mahnmut a Orphu.
Significa "sacerdote", "indovino" o "stregone"... come i tre Re magi...
Maledizione! esclamò rabbiosamente Mahnmut: sprecava il tempo del piccolo omino verde moribondo. Sentiva il battito del cuore farsi più lento a ogni secondo. So cosa significa "mago", ma non credo nella magia e nemmeno tu ci credi, Orphu.
Pare però che i nostri POV ci credano, replicò Orphu. Chiedigli degli abitanti di Olympus Mons.
«Chi sono quelle persone che volano su cocchi e stanno su Olympus?» chiese Mahnmut. Aveva l'impressione di fare le domande sbagliate, ma non riusciva a pensarne di migliori.
SEMPLICI DÈI
rispose il piccolo ornino verde, fra esplosioni di immagini di nanobyte che si risolsero in parole:
TENUTI QUI IN SCHIAVITÙ
DA UN AMARO CUORE CHE IL MOMENTO ASPETTA E MORDE.
«Chi è...?» cominciò Mahnmut, ma troppo tardi: il piccolo omino verde si rovesciò di colpo all'indietro e nella mano del moravec rimase solo un involucro secco, anziché un cuore pulsante. Appena toccò il ponte, il POV cominciò ad avvizzire e a contrarsi. Un liquido chiaro fluì sulle tavole, mentre gli occhi color antracite della piccola creatura sprofondavano nella faccia cadente, verde e poi marrone, e la pelle cambiava colore, si raggrinziva, non era più la sagoma di un uomo. Altri POV si avvicinarono e portarono via l'accartocciato involucro scuro.
Mahnmut cominciò a tremare in modo incontrollabile.
«Dobbiamo trovare un altro interprete e terminare la conversazione» disse Orphu.
«Non ora» rispose Mahnmut fra un tremito e l'altro.
«"Un amaro cuore che il momento aspetta e morde"» ripeté Orphu. «Non puoi non avere riconosciuto questa citazione.»
Mahnmut scosse fiaccamente la testa, ricordò che l'amico era cieco e disse: «No».
«Ma sei tu lo studioso di Shakespeare!»
«Non è di Shakespeare.»
«No» riconobbe Orphu «è di Browning, Calibano su Setebos.»
«Non l'ho mai sentita» disse Mahnmut. Riuscì a tirarsi in piedi - due piedi, non quattro zampe - e barcollò fino alla murata. L'acqua che s'increspava lungo le fiancate della feluca adesso era più blu che rossa. Mahnmut capì che, se fosse stato una persona, avrebbe vomitato dalla murata.
«Calibano!» quasi gridò Orphu. «"Un amaro cuore che il momento aspetta e morde." La creatura deforme, parte animale marino e parte uomo, aveva per madre una strega, Sicorace, e il dio di sua madre era Setebo.»
Mahnmut ricordò che il POV morente aveva usato quelle parole, ma non riusciva a concentrarsi sul significato, ora. Tutta la conversazione era stata come infilare perle di sangue su uno spago di tessuto vivo.
«I POV non potrebbero averci sentito recitare la Tempesta tre giorni fa, quando hai ripreso il controllo della feluca?» chiese Orphu.
«Averci sentiti?» ripeté Mahnmut. «Non hanno orecchie.»
«Allora siamo noi, non loro, a fare eco a questa bizzarra realtà nuova» disse Orphu ridendo, ma con un rombo più malaugurante della sua solita risata.
«Di cosa parli?» chiese Mahnmut. A ovest erano adesso visibili rosse scogliere. Si alzavano sette, ottocento metri sull'acqua del delta sempre più ampio del Candor Chasma.
«Pare che siamo in un folle sogno» disse Orphu. «Ma la logica è coerente... in un folle modo tutto suo.»
«Ma di cosa parli?» ripeté Mahnmut. Non era dell'umore giusto per altri giochetti.
«Ora conosciamo l'identità della faccia riprodotta nelle teste di pietra» disse Orphu.
«Davvero?»
«Sì. Il mago. Quello dei libri. Signore del figlio di Sicorace.»
La mente di Mahnmut non ce la faceva nemmeno a collegare con un tratto di matita virtuale quegli evidenti puntini numerati. Aveva il sistema ancora intasato dall'ondata di nanobyte alieni, una quieta ma moribonda lucidità a lui estranea, ma gradita... davvero gradita. «Chi?» chiese a Orphu, senza curarsi se il suo amico l'avesse ritenuto lento di comprendonio.
«Prospero» rispose Orphu.
30
ACCAMPAMENTO DEGLI ACHEI - COSTA DI ILIO
Finora questa serata va proprio come racconta Omero.
I troiani hanno approntato centinaia di falò di guardia appena al di qua del fossato acheo, ultima linea di difesa greca quaggiù sulla spiaggia; ma gli achei, pur battuti sonoramente per tutta la giornata e la sera, fino a notte, nella confusione hanno rinunciato perfino ai fuochi di cottura. Mi sono morfizzato nel vecchio Fenice e mi sono trattenuto vicino alla tenda di Agamennone, dove il piangente (piangente! Il re dei re greci piange!) figlio di Atreo incita i suoi condottieri a radunare i propri uomini e fuggire.
Ho già visto Agamennone usare questa strategia, fingere di voler fuggire per rianimare i suoi uomini alla sfida, ma stavolta, è chiaro, il vecchio re fa sul serio. Agamennone, scarmigliato, corazza sporca di sangue, guance infangate e segnate da rivoli di lacrime, vuole che i suoi uomini fuggano per salvarsi la vita.
È Diomede a sfidare Agamennone, gli dà praticamente del codardo e promette che, se tutti gli altri fuggono, "combatteremo noi due, io e Stenelo, sino al giorno in cui vedremo la conclusione già decisa per Ilio". Gli altri achei lanciano grida a favore di quella spacconata e poi il vecchio Nestore, facendo pesare i propri anni, interviene e suggerisce che tutti si diano una calmata, mangino qualcosa, pongano sentinelle, mandino uomini a sorvegliare il fossato e i bastioni e discutano la proposta, prima di correre alle navi, al mare e a casa.
Ed è ciò che fanno, proprio come Omero ha descritto.
Poi i sette capi delle guardie, guidati dal non più giovane figlio di Nestore, Trasimede, prendono con sé cento guerrieri ciascuno per presidiare nuove postazioni difensive tra fossato e bastione e accendono i fuochi per la cena. La manciata di fuochi greci (ai quali presto si unisce il falò del banchetto di Agamennone) sembrano ben poca cosa a confronto dei fuochi di guardia troiani, dall'altra parte del fossato, le cui faville volano verso le sempre più basse nubi di tempesta.
Qui al banchetto del consiglio di Agamennone, al quale partecipano tutti i principi e condottieri achei, la discussione continua proprio come Omero l'ha riportata. Nestore prende per primo la parola, loda il coraggio e la sagacia di Agamennone, ma gli dice in pratica che rubando ad Achille la schiava Briseide si è proprio fottuto da solo.
«O vecchio, hai esposto con schiettezza il mio errore» ammette onestamente Agamennone. «Ero impazzito. Impazzito e anche cieco, per offendere così Achille.»
Il grande re esita, ma nessuno, fra le decine di condottieri seduti intorno al fuoco centrale, si alza a contraddirlo.
«Mi sono lasciato accecare» riprende Agamennone «e non lo nego. Zeus ama quel giovane guerriero e perciò Achille vale un intero battaglione, no, un intero esercito!»
Nessuno discute il punto.
«E poiché sono stato reso cieco e folle dalla mia stessa ira, farò subito ammenda e pagherò un riscatto da re per riportare Achille nelle file degli achei.»
A questo punto i condottieri riuniti, Odisseo compreso, con la bocca piena di carne di bue e di pollo, borbottano parole d'assenso.
«Qui, davanti a voi tutti riuniti, elencherò gli splendidi doni per comprare l'amore del giovane Achille» grida Agamennone. «Sette tripodi non toccati dal fuoco, dieci talenti d'oro, venti lustri bacili di rame e dodici cavalli solidi e robusti, che già gareggiarono e riportarono per me premi nella corsa...»
E bla, bla, bla. Proprio come Omero scrisse. Proprio come ho detto prima. E, come ho detto prima, Agamennone promette solennemente di restituire Briseide, da lui mai toccata, nonché altre venti donne troiane (quando e se Ilio cadrà, ovviamente), e in più, come una sorta di pièce de résistance,una delle sue tre figlie a scelta, Crisotemi, Laodicea o Ifianassa (da scoliaste inveterato, noto qui l'errore ricorrente in storie precedenti e posteriori, in particolare l'assenza di Elettra e la possibile confusione del nome Ifigenia, ma tutto questo al momento non è importante) e infine, come dessert, aggiunge i "sette borghi popolosi".
E proprio come Omero ha riportato, offre questi doni en lieu delle scuse. «Tutto questo gli offrirò, se porrà fine alla sua ira» grida il figlio di Atreo ai suoi attenti condottieri. Il tuono romba e il fulmine balena, come se Zeus fosse impaziente. «Ma che Achille si sottometta a me! Solo Ade, il dio dei morti, è duro e irriducibile come questo parvenu. Che Achille lasci il posto e si inchini a me! Sono un re più potente di lui e anche più anziano. Sono, sostengo, il più grande!»
Be', ecco le scuse...
Ora piove, una pioggerella continua striata dai fulmini di Zeus, e grida di ubriachi giungono dalle linee troiane a meno di cento metri, portate dal vento sopra il fossato pieno d'acqua e i bastioni fangosi. Aspetto che avvenga la scelta degli ambasciatori ad Achille, in modo da camminare sulla spiaggia in compagnia di Odisseo e di Aiace e di partecipare con loro all'ambasciata. Questa è la notte più importante della mia vita (be', della mia seconda vita come scoliaste) e continuo a ripetere fra me e me ciò che dirò ad Achille.
"Se decidi di cambiare il nostro destino, devi trovare il fulcro."
Credo d'averlo trovato. Almeno, d'avere trovato un fulcro. Di sicuro niente sarà più lo stesso, per i greci e gli dèi e i troiani (e per me) se faccio ciò che ho in mente di compiere stanotte. Quando il vecchio Fenice parlerà, durante l'ambasciata, non solo farà terminare l'ira di Achille, ma lo farà unire a Ettore nella rivolta di greci e troiani contro gli dèi stessi.
Nestore a un tratto esclama: «Figlio di Atreo, generoso signore di uomini, Agamennone nostro, nessuno, neppure il nostro principe di uomini, figlio di Peleo, Achille, potrebbe disprezzare simili doni. Su, mandiamo una piccola ambasciata di uomini scelti con cura, che porti stanotte queste offerte e il nostro amore nella tenda di Achille. Via, quelli che designo con un'occhiata, obbediscano pronti!».
Rivestito del corpo del vecchio Fenice, mi sposto ai bordi del cerchio, accanto ad Aiace il Grande, per rendermi più visibile.
«Prima di tutti» continua Nestore «sia Aiace il Grande ad assumersi l'incarico. E il nostro brillante stratega e re, Odisseo, apporti il suo consiglio. Come araldi di scorta all'ambasceria vadano Odio ed Euribate. E ora portate acqua per le mani e ordinate il silenzio! Così invocheremo Zeus alla nostra maniera: che il sommo dio mostri pietà e induca Achille a sorridere alla nostra offerta!»
Rimango sorpreso e attonito, mentre si somministrano le abluzioni e i condottieri chinano la testa il silenziosa preghiera.
Nestore interrompe il silenzio per invitare l'ambasceria a muoversi (un'ambasceria di quattro persone, non di cinque!) e per gridare: «Ora mettetecela tutta! Convincetelo! Inducetelo ad avere pietà di noi, al nostro invincibile, spietato Achille!».
I due ambasciatori e i due araldi lasciano il cerchio di luce del fuoco e si allontanano sulla spiaggia.
"Non sono stato scelto!" penso. "Fenice non è stato scelto! Non è stato nemmeno nominato!" Omero si sbagliava! Gli eventi di questa Ilio si sono appena distaccati dagli eventi dell'Iliade e a un tratto sono cieco agli accadimenti futuri tanto quanto Elena e gli altri attori qui, cieco tanto quanto gli dèi lassù, cieco quanto Omero stesso, maledetti gli occhi che non aveva!
Barcollando sulle mie vecchie gambe rinsecchite (sulle vecchie gambe rinsecchite dell'inutile Fenice) mi faccio strada nel cerchio di capi greci e corro lungo il mare risonante per raggiungere Aiace e Odisseo.
Li raggiungo sulla spiaggia buia, a due terzi di strada dal campo di Achille. Aiace e Odisseo sono soli e parlano sottovoce mentre camminano sulla sabbia bagnata. Quando li raggiungo, si fermano.
«Cosa c'è, Fenice, figlio di Amintore?» chiede Aiace. «Ho visto che eri al banchetto del re e sono rimasto sorpreso, poiché corre voce che negli ultimi mesi tu sia rimasto vicino ai tuoi guaritori mirmidoni. Agamennone ti ha forse mandato a darci qualche ultimo consiglio?»
Ansimando come se avessi davvero gli anni di Fenice, dico: «Salve, nobile Aiace e regale Odisseo... In verità Agamennone mi ha mandato a unirmi a voi nell'ambasceria ad Achille».
Aiace pare perplesso, ma Odisseo è proprio insospettito. «Perché Agamennone avrebbe scelto proprio te per questo incarico, onorato anziano? Come mai ti trovavi nel campo di Agamennone, in questa notte pericolosa, quando al di là del fossato i troiani latrano come cani famelici?»
Non ho risposta per la seconda domanda, perciò cerco di bluffare nel rispondere alla prima. «Nestore ha suggerito che venga con voi per aiutarvi a interessare l'orecchio di Achille e Agamennone l'ha ritenuto un suggerimento saggio.»
«Vieni, allora» dice Aiace il Grande. «Vieni con noi, Fenice.»
«Ma non parlare se non te lo dico io» aggiunge Odisseo, guardandomi ancora con sospetto, come se fossi l'impostore che in realtà sono. «Forse Nestore e Agamennone hanno intuito qualche motivo perché tu venga nella tenda di Achille, ma non c'è ragione perché tu parli.»
«Ma...» comincio. Non so cosa dire. Se non ho il permesso di parlare dopo Odisseo e prima di Aiace, come ha narrato Omero, perdo tutta l'influenza, perdo il fulcro, fallisco. Se non parlo, gli eventi di questa notte divergeranno dall'Iliade. Mi rendo conto però che sono già diversi. Nestore avrebbe dovuto scegliere Fenice e Agamennone avrebbe dovuto approvarne la presenza nell'ambasceria. "Che cosa succederà, ora?" penso.
«Se vieni con noi alla tenda di Achille, vecchio Fenice» ammonisce Odisseo «devi restare nell'atrio insieme con gli araldi Odio ed Euribate ed entrare o parlare solo a un mio comando. Queste sono le mie condizioni.»
«Ma...» dico di nuovo e capisco quanto sia inutile ogni protesta. Se Odisseo si insospettisce maggiormente e mi rimanda al campo di Agamennone, il mio trucco va a farsi friggere e con esso l'intero piano di aizzare i mortali contro gli dèi. «Sì, Odisseo» dico, a capo chino come avrebbe fatto il vecchio domatore di cavalli e tutore di Achille. «Come tu comandi.»
Odisseo e Aiace riprendono il cammino lungo il mare risonante e io li seguo.
Ho già parlato della tenda di Achille e potreste averla immaginata come una sorta di tenda da campeggio, ma il figlio di Peleo sta in una struttura di tela che si avvicina in dimensioni al tendone di un circo viaggiante che ricordo dalla mia infanzia... da quello che "comincio a ricordare" della mia infanzia. Thomas Hockenberry, a quanto pare, ha avuto una vita: dopo quasi dieci anni qui, alcuni ricordi mi filtrano di nuovo nella mente.
Stanotte le centinaia di tende e di falò intorno alla grande tenda di Achille sono una scena caotica come il resto dell'accampamento acheo lungo più di un chilometro, con alcuni mirmidoni fedeli ad Achille che caricano le nere navi per la partenza, altri di vedetta sui bastioni per difendere la loro zona di spiaggia, se mai i troiani vi penetrassero prima dell'alba, e altri ancora raccolti intorno ai fuochi di campo, proprio come i condottieri di Agamennone.
Odio ed Euribate hanno annunciato il nostro arrivo ai capitani delle guardie e le guardie personali di Achille scattano sull'attenti e ci fanno entrare nel recinto interno. Lasciamo la spiaggia e risaliamo una bassa duna fino all'altura dov'è posta la tenda di Achille. Seguo i due achei: Aiace il Grande china la testa per varcare l'ingresso interno, più basso, mentre Odisseo, che arriva appena alla spalla del compagno, entra senza dover chinare la testa. Odisseo si gira e mi indica dove fermarmi, nell'atrio vicino all'ingresso. Se resto lì, vedo e ascolto ciò che accade dentro, ma non posso intervenire.
Achille, proprio come ha narrato Omero, è impegnato a suonare la lira e a declamare un epico canto di antichi eroi non molto diverso dall'Iliade stessa. La lira, lo so, è bottino di guerra, ottenuto quando Achille ha conquistato Tebe e ucciso il padre di Andromaca, Eezione. La moglie di Ettore è cresciuta ascoltando quello stesso strumento d'argento suonato nel focolare domestico della residenza reale. Ora Patroclo, il più caro amico di Achille, seduto di fronte a lui, aspetta che questi termini la sua parte per declamare i versi conclusivi.
Quando entrano Aiace e Odisseo, Achille smette di pizzicare la lira e si alza, sorpreso. Anche Patroclo si alza precipitosamente.
«Benvenuti!» esclama Achille. Rivolge un gesto a Patroclo. «Guarda, sono venuti due cari amici, i miei più cari in tutte le schiere degli achei, anche nell'ira lo riconosco. Dev'esserci un disperato bisogno di me, se sono qui.»
Fa accomodare i due emissari su bassi seggi, sui quali getta spessi tappeti color porpora. A Patroclo dice: «Su, figlio di Menezio, sistema qui un cratere più grande. Qui, mettilo qui. Mesceremo vino più forte. Una coppa per ciascuno dei miei nobili ospiti, poiché sotto il mio tetto ci sono gli amici che ho più cari».
Osservo lo svolgersi di questi rituali, sorprendentemente gentili, di eroica ospitalità. Patroclo sistema accanto al focolare un pesante tagliere e vi pone la lombata di una pecora e di una capra e il dorso, marezzato di grasso, di un maiale. Automedonte, amico e auriga sia di Achille sia di Patroclo, tiene fermi i pezzi di carne mentre Achille taglia le fette migliori, le cosparge di sale e le infila sugli spiedi. Patroclo ravviva il fuoco per un minuto, poi allarga i tizzoni, pone gli spiedi nella parte più calda del focolare e sala di nuovo la carne.
Mi accorgo d'essere affamato. Se mi chiamassero a parlare adesso (e se ne dipendesse il destino di tutti noi) non potrei profferire parola perché ho la bocca piena d'acquolina.
Come se avesse udito il brontolio del mio stomaco, Achille guarda fuori e quasi mi gela di sorpresa. «Fenice!» esclama. «Onorato mentore, nobile domatore di cavalli! Ti credevo ammalato e chiuso nella tenda, in queste ultime settimane. Entra, entra!»
Viene nell'atrio, mi abbraccia e mi guida nella parte centrale della tenda, illuminata dal fuoco, dove ora l'aria profuma di arrosto di maiale e di montone. Odisseo mi fulmina con lo sguardo e in silenzio mi ammonisce di tacere durante la discussione.
«Siedi, siedi, amato Fenice» dice Achille, un tempo allievo del vecchio. Però mi sistema su cuscini rossi, non porpora, e un po' più distante dal fuoco rispetto a Odisseo e Aiace. Non rinnega le vecchie amicizie, ma rispetta il protocollo.
Patroclo porta cesti di giunco pieni di pane fresco; Achille toglie dagli spiedi la carne e mette su piatti di legno le fumanti porzioni. «Sacrifichiamo agli dèi, amici» declama, con un cenno a Patroclo che getta tra le fiamme le primizie, le fette di carne scelte come offerta votiva. «Ora mangiate» ordina quindi e tutti noi ci dedichiamo con impegno al pane, alla carne, al vino.
Mentre mi gusto il cibo, corro con la mente: come troverò il modo di fare la dichiarazione che cambierà il destino dei presenti nella tenda e degli dèi stessi? Pareva semplicissimo, un'ora fa; ma Odisseo non ha bevuto la storia che Agamennone mi ha mandato come emissario. Nel poema Odisseo parla quasi subito, riferisce ad Achille l'offerta di Agamennone; Achille replica, in quello che ai miei allievi indicavo come il discorso più bello, più straordinario di tutta l'Iliade; poi Fenice si lancia in un lungo monologo in tre parti, all'inizio la sua storia personale, poi la parabola delle preghiere e alla fine un'allegoria della situazione di Achille, il mito di Meleagro, un paradeigma nel quale un mitico eroe aspetta troppo ad accettare i doni offerti e a combattere per i suoi amici. Tutto sommato, il discorso di Fenice è di gran lunga la più interessante petizione dei tre ambasciatori inviati a persuadere Achille. E, secondo l'Iliade,è proprio l'argomentazione di Fenice a convincere l'adirato Achille a infrangere il giuramento di ripartire l'indomani. Alla fine del discorso di Aiace, dopo il mio, Achille accetta di rimanere ancora un giorno per vedere che cosa faranno i troiani e, se necessario, proteggere da loro le sue navi.
Il mio piano consiste nel ripetere a memoria una parte del lungo discorso di Fenice e poi inserire il mio suggerimento. Ma vedo Odisseo farmi gli occhiacci dall'altra parte della tenda e capisco che non avrò la possibilità d'intervenire.
E se l'avessi? Ho riflettuto sul fatto che gli dèi terranno d'occhio questo pasto: in fin dei conti è uno dei passaggi chiave dell'Iliade, anche se forse il solo Zeus lo sa in anticipo. Ma anche senza saperlo in anticipo, di sicuro alcuni dèi e alcune dee osservano questa cena nelle loro videopiscine e nelle loro tavole di immagini. Zeus ha ordinato a tutti di non intervenire oggi e molti si adeguano al suo ultimatum, ma l'ordine divino dovrebbe accrescere la loro curiosità sull'ambasceria ad Achille. Se stanotte questi si lascia corrompere dai doni di Agamennone e dal potere di persuasione di Odisseo, allora l'offensiva di Ettore e forse perfino la volontà di Zeus stesso sono destinate al fallimento. Achille da solo vale un esercito.
Perciò se stanotte istigo all'eresia Achille, come ho progettato, se lo spingo alla guerra contro gli dèi, Zeus non interverrà subito a fulminare questa tenda con tutti i suoi occupanti? E anche se Zeus tratterrà la sua ira, posso benissimo immaginare Atena (o Era o Apollo o uno degli altri dèi interessati) scendere in picchiata a distruggere questo... "Fenice"... che ha suggerito una linea d'azione così contraria ai loro fini. Ho già considerato queste possibilità, naturalmente, e confido nel medaglione TQ e nell'Elmo di Ade per scamparla.
E se mi salvo di nuovo con la fuga, ma questi eroi finiscono uccisi o dissuasi dall'ira degli dèi? Non avrei cavato un ragno dal buco e la mia esistenza sarebbe rivelata a tutte le divinità. Allora l'Elmo di Ade e il medaglione TQ non mi sarebbero di alcun aiuto, gli dèi mi darebbero la caccia sino in capo al mondo, fino all'Indiana della preistoria, se necessario. E fine della storia, come si suol dire.
Forse Odisseo mi ha fatto un favore, non lasciandomi parlare.
Ma allora perché sono qui?
Dopo esserci satollati per bene, messi da parte i piatti e lasciate nei cesti solo le briciole, pronti per la terza coppa di vino, Aiace fa un piccolo cenno a Odisseo.
Il grande stratega coglie il segnale e alza la coppa per brindare ad Achille. «Salute, o Achille!»
Beviamo tutti e il giovane eroe china la bionda testa in segno di ringraziamento.
«Non manchiamo di niente in questo banchetto» continua Odisseo, con voce sorprendentemente bassa e calma, quasi melliflua. Di tutti i grandi condottieri achei, quest'uomo barbuto è quello che parla in modo più affabile e ambiguo. «Non manchiamo di niente tanto nel campo di Agamennone quanto qui nella casa del figlio di Peleo. Ma non è il pensiero di un copioso banchetto che abbiamo per la testa in questa notte tempestosa, no, è una ben grave sciagura, creata e voluta dagli dèi, che ci aspettiamo e temiamo stanotte.»
Odisseo continua, lentamente, pacatamente, senza mai affrettarsi, cercando di rado effetti retorici. Descrive la disfatta del pomeriggio, la vittoria dei troiani, il panico degli achei e la loro voglia di darsi alla fuga, la complicità di Zeus.
«Gli impudenti troiani e i loro presuntuosi alleati hanno rizzato le tende a un tiro di sasso dalle nostre navi, o Achille» dice Odisseo, come se Achille non l'avesse già saputo da Patroclo, da Automedonte e dagli altri suoi amici. O semplicemente non l'avesse visto dall'altura dove è posta la tenda.
«Ora niente può fermarli» continua Odisseo. «Così si vantano; e migliaia di falò, stanotte, uniscono alla vanteria la minaccia. Alle prime luci dell'alba i troiani intendono portare quei fuochi alle nostre navi e poi lanciarsi contro gli scafi anneriti dalle fiamme per massacrare i superstiti. E Zeus, figlio di Crono, manda loro segni d'incoraggiamento, fulmini che cadono sulla nostra ala sinistra, mentre Ettore infuria, ubriaco della sua stessa forza. Ettore non teme nessuno, o Achille, né uomo né dio. Oggi somiglia a un cane rabbioso e i demoni della katalepsis lo tengono nella loro stretta.»
Fa una pausa. Achille non apre bocca. Non mostra emozione. Patroclo continua a fissare in viso l'amico, ma Achille nemmeno guarda dalla sua parte. Sarebbe un magnifico giocatore di poker.
«Ettore non vede l'ora che spunti l'alba» riprende Odisseo, con voce anche più affabile, ora «perché alle prime luci minaccia di troncare le gallocce a poppa delle nostre navi, appiccarvi il fuoco che tutto consuma e, con i nostri compagni intrappolati contro gli scafi in fiamme, inseguire e uccidere noi achei fino all'ultimo uomo. Un incubo, o Achille: ho paura con tutto il cuore, ho paura che gli dèi diano a Ettore i mezzi per realizzare le minacce e che il nostro destino sia di morire qui nella piana di Ilio, lontano dalle colline di Argo dove pascolano i cavalli.»
Si ferma di nuovo e Achille tace. Le braci morenti scoppiettano. Da qualche parte, a varie tende di distanza, qualcuno suona sulla lira un lento canto funebre. Dalla direzione opposta giunge la risata da ubriaco di un guerriero che ovviamente si ritiene già condannato.
«Su, allora, Achille!» dice Odisseo, alzando finalmente la voce. «Su, in piedi con noi, anche se è l'undecima ora, se vuoi salvare dal massacro troiano i condannati figli degli achei.»
Ora chiede ad Achille di accantonare l'ira e riporta l'offerta di Agamennone, usando le stesse parole del re per descrivere i tripodi e la dozzina di cavalli da corsa e tutto il resto. Penso che la faccia un po' troppo lunga sulla descrizione dell'intatta Briseide e delle fanciulle troiane in attesa d'essere stuprate e sulle tre belle figlie di Agamennone, ma termina con un'appassionata perorazione, ricordando ad Achille il consiglio del suo stesso padre, l'ammonimento di Peleo a dar valore all'amicizia, non alle liti.
«Ma se nel cuore alberghi tanto odio per il figlio di Atreo da non accettare quei doni» conclude Odisseo «abbi almeno compassione di tutti noi achei. Unisciti a noi nella battaglia e salvaci adesso e noi ti onoreremo come un dio. Ricorda inoltre che se l'ira ti trattiene dal combattere, se lo sdegno ti rimanda a casa sul mare scuro come vino prima che la guerra contro Troia sia finita, non saprai mai se saresti stato tanto abile da uccidere Ettore. Ecco l'occasione per questa tua aristeia, o Achille, poiché domani la frenesia omicida porterà Ettore al combattimento ravvicinato, dopo tutti gli anni in cui è rimasto in disparte dietro le alte mura di Troia. Resta e combatti con noi, nobile Achille, e ora, per la prima volta, in combattimento avrai di fronte Ettore.»
Devo ammettere che il discorso di Odisseo è stato una recita di prim'ordine. Forse mi sarei lasciato persuadere, se fossi stato il giovane semidio sdraiato sui cuscini a due metri da me. Restiamo tutti in silenzio, finché Achille non posa la coppa di vino e replica.
«Nobile figlio di Laerte, seme di Zeus, stratega pieno di risorse, caro Odisseo, devo dire con franchezza e onestà cosa provo e come tutto ciò finirà, così non continuerete ad assillarmi, un'ambasciata dopo l'altra, con blandizie e toni dimessi, uno dopo l'altro, come una fila di tortore in amore.
«Tanto detesto la Morte, le buie porte dell'Ade, quanto detesto un uomo che con le labbra dice una cosa e nel cuore ne cela un'altra.»
A queste parole rimango sorpreso. È forse una frecciata a Odisseo, "stratega pieno di risorse", noto a tutti gli achei come un tipo che piegherebbe la verità, se servisse ai suoi scopi? Forse. Ma Odisseo non reagisce in alcun modo, così mantengo neutra l'espressione di Fenice.
«Parlerò con chiarezza» continua Achille. «Agamennone mi riconquisterà forse, mi persuaderà con tutti questi... doni?» Quasi sputa l'ultima parola. «No. Per niente al mondo. E neppure tutti gli eserciti e i condottieri degli achei potrebbero convincermi a tornare, perché la loro gratitudine è troppo misera e troppo tardiva. Dov'era questa riconocenza, durante gli anni e anni di battaglia contro i loro nemici, uno scontro dopo l'altro, giorni e giorni in corazza, combattendo ogni ora, senza che la fine fosse in vista?
«Dodici città ho assalito dalle mie navi; undici le ho conquistate, bagnando di sangue troiano il fertile suolo delle terre di Ilio. E da tutte quelle città ho portato via montagne di bottino e orde di belle fanciulle in lacrime; e sempre ho dato la parte migliore del bottino ad Agamennone, a quel "figlio di Atreo", al sicuro sulle veloci navi o rimpiattato ben dietro le linee. E lui tutto ha preso. Tutto e di più.
«Oh, sì, a volte ha dato le briciole a te e agli altri condottieri, ma ha sempre tenuto per sé la parte del leone. A tutti voi, della cui fedeltà ha bisogno per sostenere il suo regime, Agamennone dà. Solo a me prende! Compresa la schiava che sarebbe divenuta mia moglie. Bene, vaffanculo questa storia e vaffanculo lui e vaffanculo lei, miei cari compagni. Agamennone s'impali pure Briseide... fino all'elsa, se ancora ce la fa, quel vecchio.»
Esposte di nuovo le sue rimostranze, Achille continua e si chiede perché i suoi mirmidoni e gli achei e gli argivi dovrebbero combattere questa guerra. «Per Elena e i suoi sciolti e lucenti capelli?» chiede, sprezzante; dice che Menelao e suo fratello Agamennone non sono i soli a cui manca la moglie, ricorda a Odisseo che la sua stessa Penelope non vede il marito da dieci lunghi anni.
E io penso a Elena seduta nel suo letto, solo poche notti fa, i lucenti capelli sciolti sulle spalle, i candidi seni illuminati dal chiarore delle stelle.
È dura prestare attenzione ad Achille, anche se il suo discorso è splendido e stupefacente proprio come lo riporta Omero. Nel suo breve monologo, Achille scardina il codice eroico che fa di lui un supereroe, il codice etico che fa di lui un dio agli occhi dei suoi uomini e dei suoi pari.
Dice di non nutrire l'ambizione di battere il glorioso Ettore, di non volerlo uccidere né di voler morire per mano sua.
Dice che prenderà i suoi uomini e partirà all'alba, lasciando gli achei al loro destino, alla misericordia di Ettore, quando l'indomani i troiani attraverseranno il fossato e i bastioni.
Dice che Agamennone è un cane con una corazza d'ignominia, dice che non sposerebbe una sua figlia neanche se per portento la fanciulla avesse l'aspetto di Afrodite e le qualità di Atena.
Poi dice una cosa davvero stupefacente: sua madre, la dea Teti, gli ha rivelato che due destini si presenteranno a lui in questo giorno. Se resta qui, assedia Troia, uccide Ettore e poi muore nel giro di qualche giorno; in questo modo, ha detto Teti, avrà gloria eterna nel ricordo di uomini e dèi insieme. L'altro destino consiste nella fuga: salpare verso la patria, perdere l'orgoglio e la gloria, ma vivere una vita lunga e felice. La scelta spetta a lui, gli ha rivelato sua madre, anni prima.
Achille, ci dice ora, sceglie di vivere. Questo... questo... eroe, questa massa di muscoli e di testosterone, questo semidio e leggenda vivente preferisce la vita alla gloria. Odisseo lo guarda a occhi socchiusi, incredulo; Aiace resta a bocca aperta.
«Perciò, Odisseo, Aiace, tutt'e due fratelli per me, tornate dai grandi condottieri dell'Acaia» conclude Achille. «Riferite la mia risposta. Siano loro a escogitare il modo per salvare le concave navi e gli uomini che domani a quest'ora saranno spinti a ridosso degli scafi in fiamme. In quanto al qui presente e silenzioso Fenice...»
Si gira verso di me e io faccio un salto di un palmo sul tappeto. Ero talmente preso a preparare ciò che ho da dire, con tutte le sue implicazioni morali, da dimenticare che qui è in corso una discussione.
«Fenice» sorride con indulgenza Achille «mentre Odisseo e Aiace devono fare rapporto al loro "padrone", tu sei libero di passare qui la notte, con Patroclo e con me, e di imbarcarti con noi, giunta l'alba. Ma solo se ne hai voglia. Non costringerei mai nessuno a fuggire.»
Ecco l'occasione buona per parlare. Senza badare al cipiglio di Odisseo, mi guardo intorno, mi alzo con impaccio, mi schiarisco la voce e inizio il lungo discorso di Fenice. Come inizia? Dopo tanti anni di insegnamento e di studio, di apprendimento di tutte le sfumature di ogni parola greca... ora ho la mente vuota.
Aiace si alza. «Mentre questo vecchio sciocco cerca di decidere se fuggire o no, Achille, ti dico che sei tanto sciocco quanto il vecchio Fenice!»
Achille, quell'uccisore di uomini che non tollera nessun insulto alla propria persona, l'eroe che porterà al massacro tutti gli amici achei pur di non sopportare l'offesa di Agamennone a proposito di una schiava, si limita a sorridere e a inarcare il sopracciglio all'insulto diretto di Aiace.
«Rinunciare alla gloria e a venti bellissime fanciulle per una sola donna che non puoi nemmeno avere... bah!» esclama Aiace e si gira. «Vieni, Odisseo, questo ragazzo d'oro non ha mai bevuto al capezzolo dell'amicizia umana. Lasciamolo alla sua ira e portiamo il triste messaggio agli achei in attesa. L'alba di domani si avvicina in fretta e io almeno ho bisogno di qualche ora di sonno prima di combattere. Se morirò domani, voglio morire sveglio.»
Odisseo annuisce, si alza, annuisce di nuovo in direzione di Achille e segue Aiace il Grande fuori della tenda.
Sono ancora a bocca aperta, pronto a recitare la lunga orazione di Fenice - quell'ingegnosa orazione! - con i miei ingegnosi emendamenti e programmi nascosti.
Patroclo e Achille si alzano, si stiracchiano, si scambiano occhiate. È chiaro che s'aspettavano l'ambasciata e conoscevano in anticipo la sconvolgente risposta.
«Fenice, vecchio padre, amato dagli dèi» dice cordialmente Achille «non so che cosa realmente ti abbia portato qui in questa notte tempestosa, ma ben ricordo quando, bambino, mi prendevi in braccio e mi portavi a letto dopo la lezione. Resta qui stanotte, Fenice. Patroclo e Automedonte ti prepareranno un soffice letto. Domattina salperemo verso casa e tu potrai venire con noi o restare.»
Mi rivolge un cenno e passa nella zona letto in fondo alla tenda; rimango lì, come lo sciocco che sono, ammutolito in ogni senso, sbalordito per questa folle deviazione dalla trama dell'Iliade.
Achille deve essere convinto a restare, anche se non si unisce al combattimento, in modo che l'Iliade si dipani in questo modo, troiani ancora vincenti e greci in ritirata, con tutti i grandi condottieri feriti, Odisseo, Agamennone, Menelao, Diomede, tutti; allora Patroclo, provando compassione per i suoi amici e sapendo che Achille non scenderà in campo, indosserà l'armatura dorata di Achille e ricaccerà indietro i troiani finché, in singolar tenzone con Ettore, non sarà ucciso e il suo cadavere non sarà violato e profanato. La morte di Patroclo spingerà Achille a uscire dalla tenda, pieno d'ira omicida, e determinerà il fato di Ettore e di Ilio e di Andromaca e di Elena e di tutti noi.
"Salperà davvero?" mi chiedo. Non riesco a capacitarmi. Non solo non ho trovato il fulcro né cambiato la situazione, ma ora tutta l'Iliade è uscita dai binari. Da più di nove anni sono qui come scoliaste, a guardare e osservare e riferire alla Musa, e nemmeno una volta c'è stata una sensibile discrepanza fra gli eventi di questa guerra e la narrazione di Omero. Ora invece... Se Achille se ne va (e tutto lascia credere che all'alba se ne andrà davvero) gli achei saranno sconfitti, le loro navi saranno bruciate, Ilio sarà salva ed Ettore, non Achille, sarà il grande eroe del poema epico. Pare poco probabile che l'Odissea di Odisseo abbia luogo... di certo non nel modo in cui è stata cantata. Tutto è cambiato. "Solo perché il vero Fenice non era lì a fare la sua vera orazione?" penso. "Oppure perché gli dèi hanno interferito in questo punto focale prima che potessi farlo io?" Non lo saprò mai. La mia occasione di convincere Achille e Odisseo è svanita per sempre, il mio piano ingegnoso è fallito.
«Vieni, vecchio Fenice» dice Patroclo; mi prende per il braccio come se fossi un bambino e mi conduce in una stanza laterale nella grande tenda, dove sono pronti cuscini e coperte. «È ora di andare a letto. Domani è un altro giorno.»
31
GERUSALEMME
«Che cos'è?» chiese Harman. Era fermo con Daeman all'ombra del Muro occidentale, a Gerusalemme, solo qualche passo dietro Savi: tutt'e tre guardavano il compatto raggio di luce azzurra che trafiggeva il cielo sempre più scuro.
«Credo che siano i miei amici» rispose Savi. «Tutti i novemilacentoquattordici amici miei, gli umani vecchio stile spazzati via nel fax finale.»
Daeman guardò Harman: anche lui, capì, dubitava della salute mentale della vecchia.
«I tuoi amici?» disse. «Quella è una luce azzurra.»
Savi distolse lo sguardo dal raggio (ora illuminava la sommità degli antichi edifici e le mura intorno a loro, bagnava tutto di un bagliore azzurro, mentre la luce del giorno svaniva) e fissò i due uomini, con quello che avrebbe potuto essere un mesto sorriso. «Sì. Quel raggio di luce azzurra. I miei amici.» Con un gesto li invitò a muoversi e li precedette fuori dalla corte, lontano dal muro, lungo la strada da dove erano venuti, lontano dalla base del raggio di luce azzurra.
«I post ci dissero che il fax finale era un modo per memorizzarci mentre ripulivano il mondo» continuò Savi, con voce bassa che però echeggiava negli stretti vicoli. «Il piano era, spiegarono, di ridurre i nostri codici... per i post-umani eravamo tutti codici fax anche allora, amici miei... ridurre i nostri codici e metterci in un loop neutrinico continuo per diecimila anni, mentre loro rassettavano il pianeta.»
«Che cosa significa?» disse Harman. «Rassettare il pianeta?»
Camminavano sotto una lunga arcata e Daeman riuscì a malapena a scorgere che Savi sorrideva di nuovo. «Verso la fine dell'Età Perduta le cose sono andate un po' a catafascio» spiegò la vecchia. «Ancora peggio, dopo il rubicon. Poi giunsero gli Anni Folli. ARNisti indipendenti riportavano in vita dinosauri e Uccelli Terrore e specie botaniche estinte da lungo tempo, alterando l'ecologia del pianeta, mentre la biosfera e la datasfera cominciavano a fondersi nella noosfera cosciente, la logosfera. A quel tempo i post-umani erano già fuggiti nei loro anelli. La noosfera senziente della Terra non si fidava più di loro e a ragione: i post sperimentavano il teletrasporto quantico, aprivano ingressi in posti che non capivano, aprivano porte che avrebbero dovuto lasciare chiuse.»
Giunsero in una via più ampia e Harman si fermò. «La smetti di dire cose senza senso, Savi? Non riusciamo a capire nemmeno un terzo di ciò che dici.»
«Come potreste?» ritorse Savi, guardando Harman con un'espressione o di dolore o di grande dispiacere. «Come potreste capire? Non avete storia. Non avete tecnologia. Non avete libri.»
«I libri li abbiamo» replicò Harman, sulla difensiva.
Savi si mise a ridere.
«Tutti questi discorsi di dinosauri e di sfere cos'hanno a che fare col raggio azzurro?» chiese Daeman.
Savi si sedette su un basso muricciolo. La brezza si era levata e sibilava, in alto, fra tegole rotte. L'aria si rinfrescava rapidamente. «Non volevano averci fra i piedi, mentre rassettavano il pianeta» ripeté Savi. «Un toro di neutrini, dissero. Niente massa. Niente confusione. Niente casini. Per loro, diecimila anni per rassettare la Terra. Per noi umani vecchio stile, meno d'un battito di ciglia. Così dissero.»
«Però ti hanno lasciata indietro» obiettò Harman.
«Sì.»
«Per caso?»
«Ne dubito» rispose Savi. «Ben poco di ciò che i post facevano era per caso. Forse avevano uno scopo, nei miei riguardi. Forse mi punirono perché riportavo alla luce storie che era meglio lasciare sepolte. Era il mio lavoro, sapete. Studiavo la storia. Storia della cultura.» Rise di nuovo.
Daeman non riuscì a capirne il motivo. «Allora i neutrini sono azzurri?» chiese. Era deciso a ottenere una risposta diretta.
Savi rise ancora. «Ne dubito molto. Non credo che i neutrini abbiano colore... né bellezza. Ma quel raggio azzurro compare ogni Tisha b'Av,ogni nove di Av,e qualcosa mi dice che il resto degli umani vecchio stile, tutti i miei amici, sono memorizzati e codificati in quel raggio azzurro. Non credo che sia quella macchina a generare il raggio. Credo che ogni anno la Terra, a questo punto dell'orbita, attraversi il raggio di neutrini e che la macchina si limiti a renderlo visibile.»
«Ma non sono trascorsi diecimila anni dal fax finale» disse Harman. «Solo millequattrocento, da quanto dici.»
Savi annuì stancamente. «E le cose non sono state rassettate molto, dal fax finale, vero, miei giovani amici?» Si alzò, prese lo zaino e imboccò la stretta via. Si fermò di colpo.
«Un voynix!» esclamò Daeman. «Ora non dovremo più camminare fino al sonie. Gli diremo di portare qui un calessino e...»
Il voynix, una sagoma di ferro e di cuoio nell'arcata ovest davanti a loro, all'improvviso ritrasse i manipolatori e li sostituì con lame taglienti. Poi si lanciò alla carica, dritto contro di loro, correndo a quattro zampe sulla facciata laterale dell'edificio, come un frenetico ragno.
Savi si era messa a frugare ansiosamente nello zaino nel momento stesso in cui Daeman aveva indicato il voynix; estrasse il nero congegno di plastica e di metallo ("pistola", l'aveva chiamato) e prese di mira il voynix alla carica.
Daeman era rimasto troppo sorpreso per muoversi. Era il più vicino al voynix, che zampettava ancora sul muro, a due metri e mezzo di altezza, e saltava in orizzontale su tutt'e quattro le zampe; ma la creatura pareva concentrata su Savi e oltrepassò di corsa Daeman. All'improvviso l'aria della sera fu lacerata da un rumore, come di spatole di legno raschiate su lastre di pietra, e il muro volò in una pioggia di schegge; il voynix fu scagliato all'ìndietro e cadde sul selciato. Savi avanzò di qualche passo, mirò e sparò di nuovo.
Decine di fori grossi come la punta di un dito comparvero sul guscio e sul cappuccio metallico del voynix. Il braccio destro volò in alto come per lanciare qualcosa, ma altri dardi lo colpirono, lo staccarono dall'articolazione, lo scagliarono lontano. Il voynix si mise a fatica in piedi, una lama ancora ronzante.
Savi gli sparò ancora, quasi tranciandolo in due all'altezza della cintola. Il fluido interno, azzurro latteo, schizzò i muri e le pietre dal selciato. Ciò che restava del voynix cadde, si contrasse ancora un istante, rimase inerte.
Harman e Daeman si avvicinarono con prudenza, cercando di non calpestare il fluido azzurro e i pezzi della creatura. In due giorni era il secondo voynix che vedevano distruggere.
«Andiamo» disse Savi, togliendo dalla pistola il caricatore di dardi di cristallo e innestandone uno pieno. «Se qui attorno ce ne sono altri, siamo nei guai. Dobbiamo tornare al sonie. In fretta, anche.»
Savi li guidò per una stretta via, svoltò in un vicolo ancora più stretto, girò di nuovo in un passaggio più angusto di un vicolo, una fessura tra due edifici di pietra. Sbucarono in un cortile ampio e polveroso, passarono sotto un arco di pietra e si ritrovarono in un cortile più piccolo.
«Presto!» bisbigliò Savi. Li guidò su per una scalinata esterna, attraversò un tetto a terrazza con cumuli di polvere, salì una malferma scaletta di legno, passando davanti a finestre chiuse da scuri, fino a un tetto più in alto.
«Cosa facciamo?» bisbigliò Harman, mentre uscivano nella fredda aria della notte, in cima all'edificio. «Non dobbiamo tornare al sonie?»
«Lo chiamerò qui» disse Savi. Piegò il ginocchio, vicino al muricciolo del tetto, e attivò la funzione proxnet, schermando il bagliore sopra la mano. Harman si accoccolò accanto a lei.
Daeman rimase in piedi. Lassù l'aria era fresca, dopo il caldo delle vie acciottolate e degli stretti vicoli, e da quel punto, in cima alla collina, il panorama era interessante. Alla loro destra il raggio azzurro bagnava di livida luce le cupole e i tetti e le vie. Ormai era buio e si vedevano le stelle. Nella città non c'erano luci accese, ma le antiche cupole e le guglie e alcune arcate brillavano nel bagliore azzurro. Savi aveva detto che il recinto chiuso da mura sulla collina dove ardeva il raggio era chiamato Haram esh-Sharif, ossia Monte del Tempio, e i due edifici a cupola alla base della macchina del raggio erano la Cupola della Roccia e la moschea Al-Aqsa.
«Itbah al-Yahud!» Il grido improvviso, stridulo e amplificato, provenne dalle vie alle loro spalle. Fu ripetuto dal labirinto di stretti vicoli a ovest, fra loro e il sonie.
«Itbah al-Yahud!»
Savi alzò gli occhi dal display sulla palma della mano.
«Cos'è questo grido?» bisbigliò Harman, in tono stridulo. «I voynix non parlano.»
«No» disse Savi. «Proviene dagli antichi altoparlanti dei muezzin automatici per la chiamata alla preghiera in tutte le moschee.»
«Itbah al-Yahud!» La tremula, pressante voce echeggiò da tutte le parti nella città buia. «Al-jihad!»gridò la voce amplificata. «Itbah al-Yahud!»
«Maledizione!» imprecò Savi, guardando il display. «Non c'è da stupirsi se non risponde al telecomando.»
«Cosa?» Daeman si avvicinò e si accovacciò accanto a Harman e tutti e due guardarono il display rettangolare sospeso a qualche centimetro sulla mano aperta di Savi. Si vedeva la parte frontale del sonie, nel punto dove avevano toccato terra. I campi di sassi e la città cinta di mura brillavano di verde nella ripresa a bassa luminosità della telecamera. Più vicino, sopra l'obiettivo, decine di voynix giravano intorno al sonie, si gettavano contro la macchina, la colpivano con pietre, la coprivano di grossi sassi.
«Hanno annullato il campo di forza e rotto qualcosa» bisbigliò Savi. «Il sonie non verrà a prenderci.»
«Allahu akbar!» gridò da tutti i punti della città la stridula voce amplificata. «Itbah al-Yahud! Itbah al-Yahud!»
I tre si accostarono al bordo del tetto. Per un secondo Daeman pensò che gli edifici e il selciato delle vie e i muri di cinta dei cortili tremassero, si sbriciolassero, si dissolvessero nella luce azzurra riflessa; poi capì che sulle pietre, sulle cupole, sui muri, sui tetti strisciavano migliaia di creature, come un'invasione di scarafaggi che zampettavano furiosamente verso la luce azzurra. Allora si rese conto che i luccicanti e brulicanti edifici erano molto lontano, valutò la scala e capì che non si trattava di scarafaggi né di ragni zampettanti in corsa verso di loro, ma di voynix.
«Itbah al-Yahud!» urlava da ogni parte la voce metallica. Le parole echeggiavano contro il Monte senza perdere il tono di folle insistenza.
«Cosa significa?» chiese Daeman.
Savi guardava i voynix illuminati di azzurro zampettare più vicino sopra i tetti e nel labirinto di vie strette e sinuose. L'ondata di grandi sagome simili a insetti ormai distava meno di due isolati, tanto che si sentiva il raschiare di lame su pietre e tegole. Savi si girò lentamente. Parve più vecchia che mai, nella pulsante luce azzurra.
«Itbah al-Yahud!» ripeté piano. «"Uccidi l'ebreo".»
32
TENDA DI ACHILLE
Devo uccidere Patroclo.
Me ne rendo conto, come se avessi udito un bisbiglio nella notte, mentre me ne sto disteso nell'accampamento dei mirmidoni, nella tenda di Achille, avvolto nel guscio del corpo del vecchio Fenice.
Devo uccidere Patroclo.
Non ho mai ucciso nessuno. Cristo, da studente ho manifestato contro la guerra nel Vietnam, non ce l'ho fatta a mettere a dormire il cane di famiglia (toccò a mia moglie portarlo dal veterinario) e mi sono considerato un pacifista per gran parte della vita accademica. Non ho mai colpito nessuno, per l'amor di Dio!
Devo uccidere Patroclo.
È l'unico modo. Confidavo che la retorica (quella, modificata, del vecchio Fenice) avrebbe avuto successo, che avrebbe persuaso l'uccisore di uomini Achille a incontrarsi con Ettore e terminare la guerra, a seppellire l'ascia.
Già, seppellirla proprio nella mia fronte.
La decisione di Achille, la partenza e la scelta di una vita lunga e poco gloriosa, mi sconvolge profondamente come scoliaste (sconvolgerebbe ogni studioso dell'Iliade) ma è ragionevole. Achille ritiene ancora che l'onore sia più importante della vita; ma dopo gli insulti di Agamennone, non vede alcun onore nell'uccidere Ettore e poi essere ucciso a sua volta. Odisseo, quel retore senza pari, è stato eloquente nello spiegare e nell'evocare che gli achei viventi e le innumerevoli generazioni a venire avrebbero onorato la memoria di Achille, ma del loro onore Achille se ne frega. Qui conta solo il suo senso dell'onore e ora lui non vede alcun onore nell'uccidere i nemici di Agamennone e nel morire per gli obiettivi di Agamennone e di Menelao. Solo l'onore di Achille importa e Achille preferirebbe salpare verso casa fra qualche ora e vivere la vita di un comune mortale, rinunciando all'occasione di far parte di questa banda di fratelli, venti secoli prima del principe Hal e di Agincourt, anziché mettere a rischio altro onore qui nell'insanguinata piana di Ilio.
Ora lo capisco. Perché non l'ho capito prima? Se Odisseo (Odisseo dai modi suadenti e dalla lingua melata) non poteva convincere Achille a combattere, che cosa mi ha indotto a credere che ci sarei riuscito io? Sono stato uno stolto. Omero non è senza colpa, ma sono stato uno stolto ugualmente.
Devo uccidere Patroclo.
Poco dopo la partenza di Odisseo e di Aiace il Grande, appena torce e fuochi nei tripodi sono stati spenti nella stanza principale della tenda, sento entrare due giovani schiave per il piacere di Achille e di Patroclo. Non ho mai visto nessuna delle due, ma ne conosco il nome: Omero non lascia nessuno senza nome, nell'Iliade. L'amichetta di Achille (non avrei potuto usare questa parola, insegnando all'università dell'Indiana, nell'altra mia vita, perché la polizia del politicamente corretto mi avrebbe fatto saltare l'impiego, ma qui non pare appropriato chiamare "donne" quei ridacchianti giocattoli sessuali) è Diomeda, figlia di Forbante, dell'isola di Lesbo... ma non lesbica. La pollastra di Patroclo si chiama Ifide. M'è venuto da ridere, quando le ho scorte per un attimo fra le pieghe della tenda d'ingresso: Achille, che è alto, biondo, statuario, dai muscoli cesellati, preferiva la piccola, robusta e bruna Diomeda dai grossi seni; Patroclo, che è molto più basso di Achille e scuro di capelli, aveva scelto l'alta, bionda, snella Ifide dal piccolo seno. Per una mezz'ora sento le risate delle due donne, la salace conversazione dei due uomini e poi i gemiti e i sospiri di tutt'e quattro nella camera da letto di Achille. Ovviamente l'eroe e il suo amico non hanno scrupoli a fare sesso nella stessa stanza, addirittura commentando la prestazione, e ciò mi fa pensare ad agenti immobiliari di Bloomington, Indiana, o a fratelli di loggia nella metropoli per il fine settimana, più che ai nobili guerrieri di questa età eroica. Barbara.
Poi le ragazze se ne vanno, continuando a ridacchiare scioccamente, e c'è silenzio, a parte i borbottii delle guardie fuori della tenda e lo scoppiettio del braciere acceso per scaldarle. E il mostruoso russare che proviene dalla camera di Achille. Non ho sentito Patroclo uscire, perciò si direbbe che uno dei due, o lui o il biondo eroe, abbia il setto nasale deviato.
Ora me ne sto disteso e rifletto sulle possibilità. No, prima mi tolgo di dosso la forma del vecchio Fenice (al diavolo le conseguenze!) e poi me ne sto disteso come Thomas Hockenberry e rifletto sulle possibilità.
Tengo la mano sul medaglione TQ. Posso telequantarmi di nuovo nella camera da letto di Elena... so per certo che Paride è fuori, accanto al fossato, a vari chilometri dalla città, in attesa dell'alba per unirsi a Ettore nel massacro finale dei greci e nell'incendio delle navi achee. Elena potrebbe essere contenta di vedermi. O forse non saprebbe più che farsene del visitatore notturno di nome Hockenberry (davvero bizzarro che qui un'altra persona, a parte gli scoliasti, conosca il mio nome!) e chiamare le guardie. Nessun problema: posso sempre telequantarmi via in un istante.
Ma dove?
Non posso rinunciare al folle piano di cambiare il corso degli eventi dell'Iliade,non posso abbandonare l'obiettivo (concepito la notte del primo litigio fra Agamennone e Achille) di sfidare gli dèi immortali, non posso telequantarmi su Olimpo, scusarmi con la Musa e con Afrodite (quando l'avranno tirata fuori dalla vasca), chiedere a Zeus un'udienza privata e supplicare perdono.
"No, no" penso. "Quante sono le probabilità che ti perdonino e ti dimentichino, Hockenbush? Hai rubato l'Elmo di Ade, il medaglione TQ e tutta l'attrezzatura da scoliaste e te ne sei servito per i tuoi fini personali. Sei scappato lontano dalla Musa. Peggio ancora, hai rubato un cocchio volante e hai cercato di uccidere Afrodite nella vasca di guarigione."
Posso solo augurarmi, dopo avere chiesto scusa, che Zeus o Afrodite o la Musa mi uccidano rapidamente, anziché rivoltarmi come un calzino o gettarmi nel buio abisso del Tartaro, dove probabilmente sarei divorato vivo da Crono e dagli altri barbari Titani banditi laggiù da Zeus.
No, ho imburrato il pane e adesso devo stare dalla parte giusta. O come cavolo si dice. Quando sei in ballo, devi ballare. Chi non risica, non rosica. Meglio andare sul sicuro che poi piangere in futuro. Mentre mi sforzo di trovare una frase fatta, una qualsiasi, sento calare su di me una profonda certezza, in una forma ben poco cattedratica, ma del tutto convincente...
"Se non trovo presto una soluzione, sono davvero fottuto."
Posso parlarne con Odisseo.
Odisseo qui è l'unico sano di mente, l'uomo civilizzato, il saggio stratega. Odisseo può essere la risposta, stanotte. Mi sarà più facile convincere Odisseo che esiste la possibilità di porre fine alla guerra contro i troiani e di fare causa comune contro questi dèi fin troppo umani. A dire il vero, ho sempre preferito insegnare ai miei allievi l'Odissea,anziché l'Iliade; la sensibilità di Fitzgerald nell'Odissea è più umana della rude bellicosità di Mandelbaum, di Lattimore, di Fagles, perfino di Pope, nell'Iliade. Sbagliavo a credere di trovare il fulcro degli eventi partecipando all'ambasceria ad Achille. No, Achille non è l'uomo da avvicinare stanotte, ciò che resta di stanotte; l'uomo giusto è Odisseo, figlio di Laerte, l'unico che potrebbe capire gli appelli di uno studioso e l'impellente logica della pace.
Mi alzo e tocco il medaglione TQ, pronto ad andare da Odisseo a fare il mio appello. Solo un piccolo problema m'impedisce di telequantarmi in cerca di Odisseo. Il problema è che, se Omero ha detto il vero, so che cosa accade altrove mentre me ne sto a rimuginare in questa tenda. Agamennone e Menelao non riescono a dormire per i pensieri sui prossimi eventi e più o meno in questo momento, o forse nell'ultima ora all'incirca, il più anziano e più regale dei due fratelli chiama Nestore e gli chiede idee che potrebbero allontanare il massacro che pare imminente. Nestore suggerisce un consiglio di guerra, con Diomede, Odisseo, Aiace il Piccolo e alcuni altri condottieri achei. Non appena questi si sono radunati, Nestore suggerisce che i più coraggiosi tra loro si infiltrino dietro le linee troiane e scoprano le intenzioni di Ettore: i troiani e i loro alleati tenteranno di incendiare le navi fra qualche ora? Oppure per il momento Ettore è sazio di sangue e di vittorie ed è possibile che riporti le sue orde in città per festeggiare, prima di riaprire le ostilità?
Diomede e Odisseo vengono scelti per la missione; poiché sono stati svegliati per partecipare al consiglio, non hanno armi e ricevono il necessario dalle guardie, compreso un elmo di cuoio per Diomede e un famoso elmo miceneo con zanne di cinghiale per Odisseo. Diomede si è gettato sulle spalle una pelle di leone e Odisseo ha calzato l'elmo, di cuoio nero borchiato tutt'intorno di bianchi denti: i due mettono paura solo a guardarli.
"Potrei telequantarmi nel luogo del consiglio e vedere cosa fanno" penso.
Mossa inutile. Forse Diomede e Odisseo sono già partiti nella missione da commando. O forse Omero ha mentito o si è sbagliato sulle loro azioni, proprio come per l'intervento di Fenice. Inoltre, non ne ricaverei alcun aiuto per risolvere il problema, in questo momento. Non sono più uno scoliaste, sono solo un uomo che cerca il modo per sopravvivere e per mettere fine a questa guerra... o almeno rivoltarla contro gli dèi.
Comunque mi viene in mente un'altra parte dell'azione di stanotte, in un altro luogo, e mi sento gelare il sangue. Quando Diomede e Odisseo si avventurano fuori del campo acheo, s'imbattono in Dolone (il lanciere del quale ho preso in prestito il corpo solo due notti fa, quando seguivo Ettore nell'incontro con Elena e Paride) mandato dietro le linee achee a spiare per conto di Ettore. Dolone porta un arco ricurvo e un copricapo di pelle di martora; si muove di soppiatto e con prudenza nel campo dei recenti caduti, cerca un modo per attraversare il fossato e passare oltre le sentinelle greche; ma Odisseo dalla vista acuta lo scorge nel buio: imitato da Diomede, si distende fra i cadaveri, lo coglie di sorpresa e lo disarma.
Dolone supplica d'avere salva la vita. Odisseo gli dirà (se non l'ha già fatto) che "la morte è l'ultima cosa di cui ti devi preoccupare" e poi con calma e a bassa voce spreme dal giovane lanciere informazioni specifiche sulla disposizione dei troiani di Ettore e dei loro alleati.
Dolone rivela tutto: la posizione di cari e di peoni e di lelegi e di cauconi, le zone di riposo degli eccellenti pelasgi e dei flemmatici, leali lici e dei fieri misi, la disposizione del campo dei famosi frigi domatori di cavalli e dei meoni conduttori di cocchi da guerra; rivela tutto e supplica che lo lascino in vita. Suggerisce perfino ai due di legarlo e tenerlo prigioniero finché non avranno verificato di persona che le informazioni sono giuste.
Odisseo farà un sorriso (forse l'ha già fatto) e darà un colpetto sulla spalla all'atterrito e tremante Dolone (ricordo l'equilibrio muscolare di Dolone, quando ero morfizzato in lui) e poi con Diomede gli toglierà il copricapo e l'arco e la pelle di lupo (gli dirà con calma che lo disarmano prima di portarlo nel campo come prigioniero); infine Diomede gli mozzerà la testa, con un solo colpo di spada. La testa di Dolone cercherà ancora di parlare e chiedere pietà, mentre rotola nella polvere.
E Odisseo leverà in alto la lancia del giovane e l'arco e il copricapo di martora e la pelle di lupo e offrirà quelle spoglie a Pallade Atena, gridando: «Accettale volentieri, o dea. Sono tue! Ora guidaci al campo dei traci, così possiamo uccidere altri uomini e rubare i loro cavalli! Anche quelle spoglie saranno tue».
Barbari. Sono fra barbari. Perfino gli dèi, qui, sono barbari. Una cosa è certa: stanotte non parlerò a Odisseo.
Ma perché Patroclo deve morire?
Perché avevo ragione all'inizio: Achille è la chiave, il fulcro mediante il quale posso modificare il destino d'ognuno, dio e uomo.
Non credo che Achille partirà fra qualche ora, quando l'alba tenderà le rosee dita. No, no. Achille resterà qui a guardare, proprio come nel racconto di Omero, e a godersi le ulteriori disgrazie dei greci. "Penso che ora i greci verranno da me strisciando sulle ginocchia" dirà, dopo la dura giornata seguente, quando tutti i grandi condottieri, Agamennone, Menelao, Diomede e Odisseo, saranno feriti. E ciò avviene dopo l'ambasceria di stanotte, quando loro hanno già strisciato per farlo tornare sui suoi passi. Achille trarrà piacere dalla sconfitta dei suoi compagni argivi e achei; sarà solo la morte, per mano di Ettore, dell'amico Patroclo (che ora russa nella stanza accanto) a riportare sul campo di battaglia l'uccisore di uomini.
Perciò Patroclo deve morire per cambiare la direzione degli eventi.
Mi alzo e faccio l'inventario delle cose che indosso e ho con me. Una corta spada, sì, per confondermi con i soldati... ma non ho mai usato il maledetto arnese e non so nemmeno se taglia. La Musa me l'ha data come arredo scenico, non come arma. Per la difesa vera e propria, in questi ultimi nove anni, sono stato equipaggiato con il leggero strato di corazza protettiva (sufficiente a fermare un affondo di spada o una lancia o una freccia vagabonda, ci hanno detto nei dormitori degli scoliasti, anche se non ho mai avuto occasione di sperimentarlo) e lo storditore da cinquantamila volt camuffato nel bastone-microfono direzionale che portiamo tutti. Quest'arma è progettata solo per stordire un aggressore il tempo sufficiente a fuggire verso un portale TQ. Gli altri accessori comprendono le lenti che potenziano la vista, i filtri che espandono l'udito, l'Elmo di Ade (arrotolato come scialle intorno al collo), il medaglione TQ appeso alla catenina e, al polso, il bracciale per morfizzarmi.
A un tratto un piano (almeno, un germe di piano) mi si forma nella mente.
Agisco prima di perdermi di coraggio. Calzo l'Elmo di Ade, scompaio alla vista di mortali e immortali, sentendomi come Frodo o Bilbo o Gollum che s'infilano l'anello che li lega tutti, e in punta di piedi esco dalla dépendence dove hanno disteso i cuscini per Fenice e vado nella camera da letto di Achille.
Achille e Patroclo dormono insieme, nudi, ora che le due schiave se ne sono andate da un pezzo: il braccio di Patroclo è di traverso sulle spalle dell'uccisore di uomini.
A quella vista mi fermo di botto. "Achille è gay?" penso. "Allora quello stupido professore ossessionato da gay e lesbiche aveva ragione, i suoi farneticanti articoli erano corretti, tutte quelle ciance politicamente corrette erano vere!"
Mi tolgo di mente queste storie. Non significa niente, tranne che mi trovo a tremila anni dall'Indiana del Ventunesimo secolo e che non so cosa vedo. I due hanno appena fornicato con le schiave per due ore e sì sono addormentati lì dov'erano. E poi chi se ne frega della vita amorosa segreta di Achille?
Aziono il bracciale e richiamo la scansione fatta due giorni fa nella sala degli dèi sull'Olimpo. Non so se funzionerà: gli altri scoliasti ridevano, all'idea.
Le onde di probabilità si spostano in livelli quantici che non posso percepire. L'aria pare tremolare, rimane ferma, tremola di nuovo. Mi tolgo l'Elmo di Ade e sono di nuovo visibile.
Visibile nei panni di Pallade Atena, Tritogenia, terzogenita degli dèi, figlia di Zeus, protettrice degli achei. Alto quasi tre metri, irraggiante luce divina, mi avvicino al letto. Achille e Patroclo si svegliano e trasalgono.
Percepisco l'instabilità in ogni atomo della figura morfizzata: il bracciale non è progettato perché noi assumiamo la forma di dèi. Sento la mia sagoma ronzare come un'arpa pizzicata con forza, ma sfrutto il breve tempo che la sostituzione quantica mi concederà. Fatico a non badare alle nuove sensazioni, non solo l'improvvisa comparsa dei seni e della vagina (non mi sono mai morfizzato in una donna, prima d'oggi) ma anche l'impressione di essere una dea.
La forma è instabile. So in cuor mio di non avere i poteri di Atena, di avere soltanto preso in prestito per brevi istanti il suo guscio quantico. Mi sento come se stia per verificarsi una reazione nucleare, un disastro morfico, se non mi libero in fretta dell'onda quantica di Atena. Parlo rapidamente. «Achille! Sveglia! In piedi!»
«Dea!» esclama il piè veloce, rotolando giù dai cuscini. «Cosa ti porta qui nel cuore della notte, o figlia di Zeus?»
Anche Patroclo, strofinandosi gli occhi, si tira in piedi. Tutt'e due sono nudi: muscoli che paiono scolpiti, più belli delle più raffinate statue greche, pene non circonciso ciondolante fra le cosce robuste e abbronzate.
«SILENZIO!» tuono. La voce di Atena è amplificata, superumana. So di svegliare ogni altro nella tenda di Achille e di mettere in allarme le guardie all'esterno. Ho meno di un minuto. Quasi a dimostrare il mio punto, il dorato braccio di Atena tremola, si muta in quello pallido e irsuto del professore Thomas Hockenberry, torna quello della dea. Vedo che Achille tiene bassi gli occhi e non si accorge di niente. Patroclo guarda a occhi sgranati, confuso.
«Dea, se ti ho offeso...» comincia Achille, alzando gli occhi, ma sempre a capo chino.
«SILENZIO!» tuono. «UNA FORMICA STRISCIANTE NELLA POLVERE PUÒ FORSE OFFENDERE UN UOMO? IL PIÙ PICCOLO E PIÙ BRUTTO PESCE NEL MARE PUÒ FORSE OFFENDERE IL MARINAIO I CUI PENSIERI SONO SU ALTRE COSE?»
«Una formica?» ripete Achille. Il suo bel viso scultoreo mostra la confusione di un bambino rimproverato a torto.
«SIETE TUTTI MENO CHE FORMICHE, PER GLI DÈI» rombo e mi avvicino di un passo, cosicché la radiosità di Atena tremola su di loro come luce radioattiva. «CI HAI DIVERTITO CON LE TUE MORTI, ACHILLE, FIGLIO DI PELEO E FIGLIO IDIOTA DI TETI.»
«Figlio idiota» ripete Achille, diventando rosso. «Dea, come ti ho...»
«SILENZIO, CODARDO!» Ho amplificato la voce di Atena in modo che l'insulto sia udito anche nel campo di Agamennone, un chilometro più in là lungo la spiaggia. «NOI CE NE FREGHIAMO DI TE. CE NE FREGHIAMO DI OGNUNO DI VOI. CI DIVERTIAMO A VEDERVI MORIRE... MA LA TUA CODARDIA NON CI DIVERTE AFFATTO, PIÈ VELOCE ACHILLE!»Pronuncio con scherno le ultime tre parole, cambiando in insulto il titolo onorifico usato dal poeta. Achille stringe i pugni e muove mezzo passo avanti, come se si avvicinasse a un nemico. «O dea, Pallade Atena, protettrice degli achei, ti ho sempre offerto i migliori sacrifici...»
«IL SACRIFICIO DI UN CODARDO NON HA SIGNIFICATO PER NOI SULL'OLIMPO» ruggisco. L'onda di probabilità che è la vera dea Atena si avvicina al punto critico di collasso. Mi restano solo alcuni secondi in questa figura parzialmente morfizzata. «DA QUESTO MOMENTO CI PRENDEREMO NOI STESSI IL SACRIFICIO E CE LO BRUCEREMO» dico e il braccio di Atena si protende verso Patroclo, il bastone nascosto sotto l'avambraccio, il dito sul pulsante. «SE VUOI IL CADAVERE DEL TUO AMICHETTO, FATTI STRADA COMBATTENDO FIN NELLE SALE DELL'OLIMPO PER RIPRENDERTELO, ACHILLE CODARDO!»
Tocco Patroclo al centro del petto glabro e abbronzato: i quasi invisibili elettrodi e gli invisibili cavi gli trasmettono una corrente di cinquantamila volt.
Patroclo si stringe il petto, come colpito da un fulmine, lancia un grido, si contorce e si dibatte come per una crisi epilettica, si piscia addosso e crolla a terra.
Prima che Achille possa reagire (il piè veloce è lì in piedi, nudo, pugni chiusi, occhi sporgenti, troppo sorpreso per muoversi), Atena muove due passi avanti, afferra per i capelli quello che sembra il cadavere di Patroclo e lo trascina rudemente sul terreno.
Achille si sblocca, estrae dal fodero la spada lasciata su uno sgabello.
Sempre trascinando per i capelli l'inerte Patroclo, Atena vibra ed esce dalla stabilità morfica quantica, screziata di disturbi come una cattiva trasmissione TV. Tocco il medaglione appeso al collo e in un baleno telequanto Patroclo e me stesso fuori della tenda di Achille.
33
GERUSALEMME E BACINO DEL MEDITERRANEO
Savi, seguita da Daeman e da Harman, scese scale a pioli e a gradini e dal tetto si ritrovò in uno stretto vicolo. La luce delle stelle e il bagliore azzurro del raggio di neutrini sul Monte del Tempio fornivano luce appena sufficiente per non sbattere contro i muri o non cadere in un pozzo, mentre correvano, anche se il buio era una solida parete nelle arcate e nelle finestre vuote. In breve Daeman rimase indietro, senza fiato. Non aveva mai corso, nemmeno da bambino. Era assurdo correre.
Più da vicino ora, da meno di un breve isolato nel labirinto di edifici dal tetto piatto e nell'intrico di vicoli, giungeva il raspare di centinaia di voynix in corsa.
«Itbah al-Yahud!» gracchiò la voce dagli altoparlanti che Savi aveva chiamato "muezzin".
Li condusse in una via acciottolata, in un altro vicolo stretto e buio, attraverso una piccola radura disseminata di lucenti ossa umane e in un cortile interno ancora più buio del vicolo. I tonfi soffocati e il raspare dei manipolatori dei voynix, in corsa ad alta velocità lungo i muri, erano adesso più vicini.
«Itbah al-Yahud!» Il grido amplificato pareva più pressante.
"Solo Savi qui è ebrea, qualsiasi cosa significhi" pensò Daeman, con i polmoni in fiamme, barcollando per tenersi al passo. "Se Harman e io le permetteremo di andarsene da sola, i voynix ci lasceranno stare, forse ci aiuteranno perfino a tornare a casa. Non c'è motivo di condividere la sorte della vecchia."
Harman correva veloce dietro Savi che attraversò il cortile, abbassò la testa per varcare una bassa arcata ed entrò nelle rovine di un antico edificio. "Potrei fermarmi solo io" pensò Daeman. "Harman stia pure con la vecchia, se vuole."
Rallentò e si fermò sui ciottoli polverosi. Harman esitò nel nero rettangolo di un androne e lo chiamò a gesti. Daeman si guardò alle spalle, da dove provenivano i rumori, simili a quelli di artigli o di ossa cave sbattute contro la pietra, e nella luce del raggio azzurro vide una decina di voynix che correvano nella via appena attraversata da loro.
Si sentì balzare il cuore in gola. Non era avvezzo alla paura e ritenne terrificante l'idea di fare qualcosa da solo, in quel preciso momento: allora corse nel buio dietro Harman e la vecchia.
Savi li guidò giù per una serie di scale sempre più strette, ogni rampa più antica e più consunta della precedente. Dopo quattro rampe, tolse dallo zaino una torcia elettrica e l'accese, mentre l'ultimo barlume di luce riflessa spariva dal fioco bagliore azzurro in alto. Il sottile raggio della torcia illuminò un muro in fondo alla rampa di scale più stretta e Daeman ebbe di nuovo un colpo al cuore. Poi vide quello che pareva un pezzo di tela da sacchi sporca appeso a coprire un buco troppo stretto (ne era sicuro) per consentirgli il passaggio.
«Presto!» bisbigliò Savi. Scostò il lembo di tela e s'infilò nel buco. Daeman udì un'eco che pareva provenire da un pozzo. Harman si affrettò a seguire nel buio la vecchia.
Daeman sentì un raspio dall'alto, dalle rovine dell'edificio, ma non i passi dei voynix sulle scale. Non ancora, almeno.
Si sporse nel piccolo foro, vi infilò a fatica le spalle, scoprì d'essere sospeso su un cerchio nero privo di fondo del diametro di poco più d'un metro; poi, agitando le mani, trovò anelli di ferro conficcati nella parete opposta e con un grugnito si tirò, torace e bacino, dentro l'apertura, graffiandosi contro l'antico intonaco, finché non ebbe le gambe penzoloni. Allora con i piedi trovò appoggio negli arrugginiti anelli metallici e cominciò a scendere in direzione dei rumori attutiti prodotti da Savi e da Harman che lo precedevano nella discesa.
Sentì salire aria fredda. Mosse, insicuro, mani e piedi da anello ad anello di freddo metallo, udì bisbigli più in basso e all'improvviso non trovò più appoggio e cadde da un metro e mezzo su un pavimento di mattoni.
Harman lo aiutò a tenersi in piedi. Nel cerchio di luce proiettato dalla torcia di Savi, Daeman vide un tunnel a sezione circolare, fatto di antiche pietre o mattoni.
«Da questa parte» disse Savi e riprese a correre, piegata in due per non urtare il soffitto basso. Harman e Daeman la seguirono, cercando di evitare i mattoni irregolari del pavimento curvo e guardando il cerchio di luce della torcia anziché i propri piedi.
Giunsero a un bivio. Savi controllò sulla palma la luccicante funzione guida e scelse il tunnel di sinistra.
«Non sento più rumori di voynix dietro di noi» disse Harman. Aveva parlato piano, ma la voce echeggiò contro i mattoni. Era il più alto dei tre e doveva procedere quasi sempre piegato in due.
«Sono sopra di noi» disse Savi. «Ci seguono nelle vie.»
«Usano proxnet?» chiese Daeman.
«Sì» rispose Savi. Si fermò a un incrocio con tre tunnel più piccoli e scelse quello centrale. Anche lei e Daeman furono costretti a ingobbirsi per procedere.
Harman diede un'occhiata a Daeman, chiaramente incuriosito dal commento su proxnet, ma non chiese spiegazioni.
«Seguono voi, sapete» disse Savi, con un'occhiata prima a Daeman e poi a Harman. La cruda luce della torcia faceva sembrare ancora più vecchio il viso della donna, quasi un teschio.
«Non te?» replicò Daeman, sorpreso.
Savi scosse la testa. «Non risulto su nessuna rete. I voynix non sanno che sono qui. Siete voi due a comparire in territorio vietato sui loro schermi farnet e proxnet. Credo che il portale fax più vicino sia Mantova. I voynix sanno che non siete giunti a piedi fin qui.»
«Ora dove andiamo?» bisbigliò Harman. «Al sonie?»
Savi scosse di nuovo la testa. Aveva i capelli bagnati, per il sudore o per l'umidità condensata, e incollati al cranio. «Questi tunnel non vanno al di là della città vecchia. E ormai i voynix hanno danneggiato il sonie. Cerco il crawler.»
«Il crawler?» ripeté Daeman. Ma Savi, anziché dare spiegazioni, gli girò le spalle e riprese a guidarli nei tunnel.
Dopo un centinaio di passi il cunicolo di mattoni divenne uno stretto corridoio; dopo trenta passi il corridoio divenne una scala; poi una parete bloccò la strada.
Daeman sentì che il cuore minacciava di balzargli dal petto. «E ora che facciamo?» domandò. «Che facciamo? Che facciamo?» Diede le spalle alla luce e tese l'orecchio per sentire se dal buio provenivano rumori di voynix.
«Ci arrampichiamo.»
Daeman si girò e vide che Savi risaliva in un altro pozzo verticale, ancora più stretto di quello della discesa; poi la luce sparì, mentre la torcia ballonzolava sopra di loro.
Harman spiccò un balzo per raggiungere il primo anello, mancò la presa, imprecò sottovoce, saltò di nuovo, afferrò l'anello e si tirò su. Daeman scorse appena il contorno del braccio di Harman, proteso verso di lui. «Forza, Daeman. Presto. Probabilmente i voynix sono già quassù ad aspettarci.»
«E allora perché ci arrampichiamo?»
«Forza» disse Harman. Nel buio afferrò per il braccio Daeman e lo tirò su.
I voynix irruppero nella parete dell'edificio proprio mentre i tre umani si arrampicavano sul crawler.
L'enorme veicolo occupava gran parte dello spazio nell'area centrale di quella che, a detta di Savi, era stata una grande chiesa. Quando avevano risalito le scale del sotterraneo, con il raggio della torcia che guizzava da una parte all'altra, Daeman si era fermato sui gradini, non credendo ai propri occhi. Il crawler riempiva lo spazio come un gigantesco ragno, con le sei ruote (ciascuna alta almeno tre metri e mezzo) collegate da sottili montanti imperniati, con al centro la sfera passeggeri che risplendeva di un colore bianco latte come un uovo al centro di una ragnatela.
I colpi contro il portone e la parete della chiesa cominciarono un attimo prima che Savi si arrampicasse sulla sottile scaletta d'accesso metallica che penzolava dai montanti. «Sbrigatevi!» disse la vecchia, senza più bisbigliare.
Terzo della fila (ancora una volta), Daeman pensò che la vecchia era maestra dell'imperativo superfluo. Una finestra chiusa da assi, a circa venti metri da terra, esplose verso l'interno e cinque voynix zampettarono dentro, con le lame dei manipolatori che intaccavano la pietra come martelli da ghiaccio. Le loro cupole arrugginite e prive d'occhi sopra il guscio si girarono lentamente verso il basso e si puntarono sul crawler e sulle tre persone che cercavano di raggiungere la sfera passeggeri. Pietre esplosero dalla parete più lontana e altri sei voynix entrarono, muovendosi a due zampe.
Savi toccò un cerchio rosso sbiadito nella parte inferiore della sfera e premette una serie di numeri nel piccolo disco giallo che comparve: una sezione del globo di vetro si aprì con un percettibile fruscio. Savi strisciò dentro, Harman la seguì e Daeman lo imitò e ritrasse le gambe proprio mentre la prima delle pietre lanciate dai voynix volava verso di lui.
La sezione di sfera si richiuse. Al centro c'erano sei poltroncine anatomiche di cuoio screpolato. Harman e Daeman si lasciarono cadere in quelle laterali, mentre Savi passava la mano su un piatto cuneo metallico che sporgeva davanti al sedile anteriore. La proiezione di un quadro di comando, dalla lieve luminescenza, molto più complicata di quella del sonie, si accese intorno a lei. Savi toccò un quadrante rosso virtuale, spinse un cerchio giallo vivo lungo un cursore verde e infilò la mano in un controller anatomico.
«E se non parte?» chiese Harman e Daeman gli affibbiò il titolo di maestro delle domande retoriche poste nel momento meno opportuno. I voynix, una ventina, si arrampicarono sulle alte ruote di maglia nera e balzarono come cavallette giganti sulla parte superiore della sfera di vetro. Daeman trasalì e si accucciò.
«Se non parte, moriamo» disse Savi. Piegò a destra il controller virtuale.
Non ci fu rombo di motore né ronzio di giroscopio, solo un brusìo così basso da essere quasi subsonico. Ma dei fari trafissero le tenebre davanti al crawler e una decina di display virtuali si accesero.
I sei voynix in cima alla sfera passeggeri si erano messi a battere e a graffiare il vetro, ma all'improvviso scivolarono via e caddero a terra, con un salto di sei metri. Non rimasero danneggiati (ognuno di essi balzò in piedi e si lanciò di nuovo verso la sfera) ma caddero ancora, incapaci di trovare appiglio sulla superficie alla quale solo qualche secondo prima si tenevano attaccati.
«È un campo di forza spesso un micron» borbottò Savi, concentrata sui disegni luminosi e sulle icone comparse su tutto il pannello virtuale. «Privo di attrito. Progettato per impedire che neve o pioggia di accumulino sulla cupola. A quanto pare, fa scivolare via altrettanto bene i voynix.»
Daeman si girò a guardare una ventina di voynix che si arrampicavano sulle enormi ruote, menando colpi alla maglia metallica e strattoni ai montanti e ai sostegni. «Sarebbe meglio andarcene» disse.
«Sì» convenne Savi. Spinse avanti il controller virtuale e il crawler attraversò con uno schianto l'antico muro della chiesa, cadde per una decina di metri prima che le ruote bizzarramente snodate facessero presa sul muro e sul terreno e poi accelerò in avanti. Il vicolo era leggermente più stretto del crawler, ma non bastò a rallentare neanche un poco la macchina. Muri vecchi parecchie migliaia di anni crollarono a destra e a sinistra, finché il crawler non sbucò in via Davide e Savi lo indirizzò a sinistra, verso ovest, lontano dal raggio azzurro che ancora trafiggeva il cielo dietro di loro.
Decine e decine di voynix zampettarono all'inseguimento, mentre altre decine si lanciavano davanti al veloce crawler e saltavano verso la sfera passeggeri. Continuando ad accelerare, il crawler passò sopra quelli che non lo scansavano e si lasciò indietro il resto della muta. Cinque o sei voynix ostinati, ancora appesi ai montanti, scheggiavano il metallo e artigliavano le ruote in movimento.
«Possono danneggiarci?» chiese Harman.
«Non lo so» rispose Savi. «Ci avviciniamo alla Sha'ar Yaffo,la porta di Giaffa. Vediamo se riusciamo a liberarcene.»
Deviò il veicolo ancora in accelerazione contro i muri su un lato e poi sull'altro di via Davide e infine fracassò un'arcata, più bassa del crawler. Le vibrazioni e i pezzi di muratura sbalzarono via i voynix, ma Daeman si girò e vide che quasi tutti si rialzavano dai detriti e si univano alla muta d'inseguitori. Poi il crawler si trovò al di là della porta, fuori della città vecchia, e aumentò velocità giù per la collina coperta di ghiaia dove avevano lasciato il sonie. L'unico segno della macchina volante era un mucchio di sassi alto dieci metri, circondato da quaranta o cinquanta voynix che lasciarono immediatamente la montagnola e si precipitarono a tagliare la strada al crawler. Savi ne schiacciò alcuni, ne scansò altri e trovò un'antica autostrada che correva a ovest dalla città.
«Veicolo resistente» disse Harman.
«Costruivano veicoli resistenti, verso la fine dell'Età Perduta» disse Savi. «Con la nanomanutenzione, dovrebbe durare quasi in eterno.» Dallo zaino aveva preso le lenti a visione notturna della termotuta e le usava per guidare: ora aveva spento i fari del crawler. Daeman trovò sconvolgente l'effetto di correre a precipizio nel buio, fra rumori di manufatti rugginosi, forse antichi veicoli abbandonati, schiacciati sotto le ruote. Dopo un poco capì che correvano su un ponte e poi in una strettoia fra due montagne. Ora, nell'oscurità, non scorgeva più i voynix all'inseguimento, solo la lama di luce azzurra che si alzava dalla collina buia di Gerusalemme e appariva sempre più lontana; ma sapeva che i voynix erano sempre lì, dietro di loro.
Savi disse che mancavano circa cinquanta chilometri alla linea costiera dell'ex mar Mediterraneo. Percorsero la distanza in meno di dieci minuti.
«Guardate là» disse Savi, rallentando il crawler. Si tolse le lenti per la visione notturna e accese fari, antinebbia e riflettori.
Una massa di cinque o seicento voynix aveva formato un cuneo nei pressi del punto dove il terreno s'inclinava all'improvviso e scendeva nel bacino del Mediterraneo.
«Cambiamo strada?» chiese Harman.
Savi scosse la testa e accelerò. Più tardi Daeman pensò che il rumore del veicolo che colpiva a quella velocità un mucchio di voynix somigliava a una grandinata che aveva sentito sotto un tetto metallico a Ulanbat, molti anni prima. Ma i chicchi parevano davvero grossi.
Il crawler raggiunse la ex linea costiera. Savi gridò: «Tenetevi forte!» e il veicolo rimase sospeso in aria per dieci secondi, mentre superava il dislivello fra la costa e il mare di un tempo. Poi le sei enormi ruote colpirono il terreno e i montanti assorbirono la maggior parte dell'urto e si stabilizzarono; il veicolo corse dritto nel bacino, trafiggendo il buio con i bianchi coni dei fari e dei proiettori.
Daeman guardò indietro e vide i voynix superstiti, messi in rilievo dal lontano raggio azzurro, lungo la costa. «Non ci seguono?»
«Nel bacino?» disse Savi. «Nemmeno per sogno.» Rallentò il crawler a velocità più ragionevole, ma prima inforcò le lenti e spense i fari. Daeman vide che seguivano una strada liscia, color rosso argilla, fra verdeggianti campi di messi. Croci di metallo nero sporgevano sulla distesa di grano e di mais e di girasoli e di piante di lino, là fuori nel buio: impalato su ogni croce, si contorceva quello che pareva un pallido corpo umano nudo.
34
COSTA DI ILIO - INDIANA
Achille s'infuriò, ruggì, strappò la parete della tenda dove la dea Atena era scomparsa trascinando il corpo di Patroclo. Poi l'uccisore di uomini divenne pazzo.
Le guardie accorsero nella tenda. Ancora nudo, Achille sollevò il primo e lo scagliò contro il secondo. Il terzo udì un ruggito e si ritrovò a volare in aria, attraverso la parete di tela della tenda. Il quarto gettò a terra la lancia e corse a svegliare i mirmidoni per far sapere che il loro signore e condottiero era posseduto da uno spirito demoniaco.
Achille raccattò le brache, la tunica, la corazza, lo scudo, i lucidi schinieri di bronzo, i sandali e la lancia, avvolse tutto in un lenzuolo e, impugnata la spada, si aprì la strada attraverso tre pareti di tela. Fuori della tenda, rovesciò il grosso tripode lasciato acceso al centro del campo e corse al di là delle tende buie, lontano dagli accampamenti e verso il nero mare, verso sua madre, la dea Teti.
Le onde si frangevano sulla riva, solo il bianco delle creste era visibile nel buio, lì, lontano dai fuochi. Achille camminò su e giù sulla sabbia bagnata. Era sempre nudo: la corazza e le armi erano sparse sulla spiaggia. Mentre andava avanti e indietro, si tirava i capelli e gemeva forte, di tanto in tanto gridava, straziato, il nome della madre.
E Teti, figlia del dio del mare Nereo, il Vecchio del Mare, rispose al richiamo di Achille, comparve dai verdi e salsi abissi, si levò come nebbia dai frangenti e si solidificò nell'alta forma della nobile dea. Achille corse a lei come un bambino ferito e cadde in ginocchio sulla sabbia fradicia. Teti gli cullò la testa contro il seno bagnato, mentre lui singhiozzava. «Figlio mio, perché piangi? Quale angoscia ti strazia il cuore?»
Achille gemette. «Lo sai, non puoi non saperlo, Madre... Non farmelo ripetere.»
«Ero con mio padre nei verdi e salsi abissi» mormorò Teti, lisciando i capelli d'oro di Achille. «Poiché mortali e dèi dormivano, a questa tarda ora, non ho visto ciò che è accaduto. Raccontami tutto, figlio mio.»
E Achille raccontò, piangendo di dolore, soffocato dall'ira. Parlò della comparsa di Pallade Atena, degli insulti e delle parole di scherno della dea. Descrisse l'uccisione del suo amico Patroclo. «Ha portato via il suo cadavere, Madre!» gridò. Era inconsolabile. «Ha portato via il suo cadavere, così non posso nemmeno onorarlo con gli adeguati riti funebri!»
Teti gli diede colpetti sulla spalla e scoppiò in lacrime anche lei. «Oh, figlio mio, mio dolore! La tua nascita è stata amarezza. Ho generato solo sventura. Perché ti ho allevato, se la volontà di Zeus è quella di gettarti nella polvere?»
Achille alzò il viso rigato di lacrime. «Allora è davvero volontà di Zeus? È proprio Pallade Atena colei che ha appena ucciso Patroclo... non una falsa immagine della dea?»
«È stata la volontà di Zeus» pianse Teti. «E anche se non ho visto, so che è stata la dea Atena in persona a schernirti e a uccidere il tuo amico stanotte. Oh, che disgrazia che tu sia destinato a una vita non solo breve, Achille, figlio mio, ma anche rovinata dal crepacuore.»
Achille si staccò da lei e si alzò. «Perché gli dèi immortali mi hanno insultato così, Madre? Perché Atena, che per tanti anni ha sostenuto la causa degli argivi e la mia in particolare, ora mi abbandona?»
«Gli dèi sono volubili» disse Teti, con l'acqua che dai capelli ancora le colava sui seni. «Forse l'hai notato.»
Achille camminava su e giù davanti a lei, stringendo e aprendo i pugni, trafiggendo l'aria. «Non ha senso! Farmi arrivare così lontano... aiutarmi spesso nelle conquiste... solo per essere insultato adesso da Atena e da suo padre.»
«Si vergognano di te, Achille.»
L'eroe si bloccò e girò verso di lei il viso pallido e impietrito. Aveva l'aria di chi è stato schiaffeggiato con forza. «Si vergognano di me? Si vergognano del piè veloce Achille, figlio di Peleo e della dea Teti? Si vergognano del nipote di Eaco?»
«Sì» disse Teti. «Zeus e gli dèi inferiori, Atena compresa, hanno sempre disprezzato i mortali, anche gli eroi. Dal loro punto di vista, tutti voi siete meno che inserti, trascorrete una vita sgradevole, animalesca e breve; la vostra esistenza è giustificata solo dal fatto che con la vostra morte li divertite. Perciò, restandotene imbronciato nella tenda, mentre le sorti della guerra si decidono, hai irritato la figlia terzogenita di Zeus e lo stesso signore e padre Zeus.»
«Hanno ucciso Patroclo!» ruggì Achille, allontanandosi di un passo dalla dea, lasciando sulla sabbia bagnata impronte subito cancellate dalle onde di risacca.
«Ritengono che tu sia troppo codardo per vendicare la sua morte» disse Teti. «Hanno abbandonato il suo corpo a corvi e avvoltoi sulle vette dell'Olimpo.»
Con un gemito, Achille cadde sulle ginocchia. Prese manate di sabbia bagnata e si percosse il petto. «Madre, perché me lo dici ora? Se già sapevi che gli dèi mi disprezzano, perché non me l'hai detto prima? Mi hai sempre insegnato a servire e riverire Zeus. A obbedire alla dea Atena.»
«Ho sempre sperato che gli altri dèi concedessero misericordia ai nostri figli mortali» disse Teti. «Ma il gelido cuore del signore Zeus e i modi da guerriero di Atena hanno avuto la meglio. La razza umana a loro non interessa più. Nemmeno per divertimento. E i pochi immortali che difendono la vostra causa non sono al sicuro dall'ira di Zeus.»
Achille si alzò e si avvicinò di tre passi. «Madre, tu sei una dea immortale, Zeus non ti può fare nulla.»
Teti rise senza allegria. «Il Padre può distruggere qualsiasi cosa e uccidere chiunque voglia, figlio mio. Perfino un immortale. Peggio ancora, può esiliarci nelle tenebre del Tartaro, gettarci in quell'abisso infernale, come ha fatto col suo stesso padre Crono e con la sua piangente madre, Rea.»
«Allora sei in pericolo» disse Achille, tramortito. Barcollò come un uomo che avesse bevuto troppo o un marinaio sul ponte di una piccola nave che beccheggi nel mare in burrasca.
«Sono condannata» disse Teti. «E tu pure, figlio mio, a meno che tu non faccia l'unica cosa che nessun mortale, nemmeno l'impudente Eracle, ha mai tentato prima.»
«Cosa, madre?» Al chiarore delle stelle il viso di Achille rivelava il turbamento, mutava per emozioni che passavano in un lampo dalla disperazione all'ira e a qualcosa più dell'ira.
«Abbatti gli dèi» bisbigliò Teti e le sue parole furono appena percettibili nel fragore della risacca. Achille si avvicinò, piegò la testa come se non credesse alle proprie orecchie. «Abbatti gli dèi» bisbigliò di nuovo Teti. «Assali l'Olimpo. Uccidi Atena. Deponi Zeus.»
Achille arretrò, barcollando. «È possibile?»
«No, se agisci da solo» disse Teti. Bianche onde si arricciarono intorno ai suoi piedi. «Ma se porti con te i guerrieri argivi e achei...»
«Agamennone e suo fratello comandano gli achei, gli argivi e i loro alleati, stanotte» la interruppe Achille. Si girò a guardare i fuochi accesi lungo chilometri di spiaggia e poi quelli, molto più numerosi, dei troiani, che splendevano appena al di là del fossato difensivo. «E argivi e achei sono sul punto di darsi alla fuga, stanotte, Madre. Forse all'alba le nere navi saranno già in fiamme.»
«Forse» disse Teti. «Le vittorie troiane di oggi sono solo un altro segno del capriccio di Zeus. Ma argivi e achei seguiranno te nella vittoria anche contro gli dèi, Achille. Proprio stanotte Agamennone ha detto a Odisseo e a Nestore e agli altri radunati nel suo campo che il migliore era lui: più saggio, più forte, più coraggioso di Achille. Mostragli che non è così, figlio mio. Mostra a tutti che non è così.»
Achille le girò la schiena. Guardava la lontana Ilio, dove le torce ardevano vividamente sulle alte mura. «Non posso combattere gli dèi e i troiani contemporaneamente.»
Teti gli toccò la spalla, fino a farlo girare. «Hai ragione, figlio mio, Achille piè veloce. Devi porre termine a questa insensata guerra contro Troia, iniziata per quella puttana della moglie di Menelao. Chi se ne frega di dove dorme la mortale Elena o se gli Arridi, Menelao e il suo arrogante fratello Agamennone, sono o no cornificati? Poni fine alla guerra. Fai pace con Ettore. Anche lui stanotte ha motivi per odiare gli dèi.»
Achille le rivolse un'occhiata, incuriosito, ma Teti non diede spiegazioni. Achille tornò a guardare i fuochi e la lontana città. «Oh, se potessi visitare l'Olimpo stanotte, così da uccidere Atena, deporre Zeus e reclamare il cadavere di Patroclo per i riti funebri.» Il tono era basso, ma terrificante per la folle decisione.
«Ti manderò un uomo a mostrarti la via» disse Teti.
Achille si girò di scatto. «Quando?»
«Domani, dopo che avrai parlato con Ettore, fatto fronte comune con i guerrieri troiani e tolto la sovranità sugli argivi e sugli achei a quell'Agamennone buono solo ad atteggiarsi a sovrano.»
Achille batté le palpebre all'audacia di quel progetto. «Come potrò trovare Ettore senza che mi uccida o che debba ucciderlo io?»
«Manderò un uomo che ti mostrerà anche questo» disse Teti. Arretrò. La risacca prima dell'alba le avvolse le gambe.
«Madre, non andare via!»
«Vado nella dimora di padre Zeus, incontro al mio fato» mormorò Teti, con voce che quasi si perse nel rumore dei frangenti. «Discuterò la tua causa un'ultima volta, figliolo, ma temo di fallire; e l'esilio sarà la mia sorte. Sii ardito, Achille! Sii coraggioso! Il tuo fato è stato previsto, ma non stabilito. Hai ancora la scelta fra morte e gloria o lunga vita, ma anche vita e gloria... e che gloria, Achille! Nessun mortale ha mai sognato una simile gloria! Vendica Patroclo.»
«Madre...»
«Gli dèi possono morire, figlio mio. Gli... dèi... possono... morire!» La sua forma ondeggiò, cambiò, divenne una nebbiolina e scomparve.
Achille rimase a fissare per vari minuti il mare, finché la fredda luce dell'alba non cominciò a strisciare da oriente; allora si girò, indossò le vesti e i sandali e la corazza e gli schinieri, prese il grande scudo, infilò la spada nel fodero appeso al cinturone, raccolse la lancia e si diresse al campo di Agamennone.
Dopo questa recita, crollo. Per tutto il dialogo il bracciale morfico mi ha pigolato all'orecchio, con la sua voce IA, da intelligenza artificiale: «Dieci minuti di carica prima del blocco. Sei minuti di carica prima...» e via di questo passo.
il marchingegno è quasi scarico e non ho idea di come ricaricarlo. Mi rimangono soltanto meno di tre minuti di morfizzazione, ma ne ho bisogno per fare visita alla famiglia di Ettore.
"Non puoi rapire un bambino" mi dice la vocina che è tutto ciò che resta della mia coscienza. "Devo farlo" è l'unica risposta che posso dare.
Devo farlo.
Ormai ci sono dentro. Ho riflettuto a fondo. Patroclo era il segreto per arrivare ad Achille. Scamandrio e Andromaca, figlio e moglie di Ettore, sono il segreto per convertire l'eroe troiano. L'unico modo.
Quando si è in ballo, bisogna ballare.
In precedenza, quando mi ero telequantato sulla collina inondata dal sole pomeridiano di quello che ancora mi auguro sia l'Indiana, tenendo fra le braccia Patroclo privo di sensi, non avevo visto traccia di Nightenhelser. Avevo subito lasciato cadere nell'erba Patroclo (non sono omofobo, ma trascinare un uomo nudo mi fa una strana impressione) e avevo lanciato richiami verso il fiume e la foresta, senza ottenere risposta da Keith Nightenhelser. Forse gli antichi nativi americani l'avevano ormai scotennato o adottato nella tribù. O forse il mio amico era soltanto dall'altra parte del fiume, nei boschi, a raccogliere noci e bacche.
Patroclo aveva emesso un gemito e si era mosso.
Dov'è il senso nel lasciare un uomo, nudo e stordito, straniero in una terra straniera come questa? E se un orso l'avesse ucciso? Poco probabile. Più probabile invece che Patroclo trovasse e uccidesse il povero Nightenhelser, anche se il greco era nudo e disarmato, mentre Keith era ancora in possesso di giubbotto protettivo, storditore e spada in dotazione. Sì, avrei scommesso su Patroclo. Dov'è il senso nel lasciare un Patroclo incazzato nello stesso ettaro di terra dove avevo abbandonato un pacifico accademico a raccogliere bacche?
Non avevo tempo per preoccuparmi. Avevo controllato la carica del bracciale morfico (era ridotta al lumicino) e mi ero telequantato di nuovo sulla costa di Ilio. Dall'esperienza con Atena avevo imparato qualcosa sul diventare una dea e morfizzarsi in Teti avrebbe richiesto meno energia che non morfizzarsi nella figlia di Zeus. Con un po' di fortuna, avevo pensato, il congegno morfico avrebbe funzionato tanto da permettermi la scena con Achille e da conservare un po' di carica per quella con la famiglia di Ettore.
Così era stato. E adesso mi resta ancora un po' di carica. Mi posso morfizzare per un'ultima volta.
"La famiglia di Ettore" penso. Che cosa sono diventato?
"Un uomo in fuga" mi rispondo, mentre mi infilo l'Elmo di Ade e cammino sulla sabbia. Un disperato.
"Si scaricherà presto anche il medaglione? Nello storditore ci sarà ancora un po' di energia, caso mai ne avessi bisogno a Ilio?"
Lo scoprirò presto. Non sarebbe ironico, se riuscissi a portare dalla mia parte Achille ed Ettore e poi non avessi più il mezzo per telequantare loro o me sull'Olimpo?
Me ne preoccuperò più tardi. Di tutta questa merda mi preoccuperò più tardi.
Ora ho un appuntamento, alle quattro di mattina, con la moglie e il figlio di Ettore.
35
DODICIMILA METRI SOPRA L'ALTOPIANO DI THARSIS
«Che cos'ha da dire, Proust, sui palloni aerostatici?»
«Non molto» rispose Orphu di Io. «Non era un gran viaggiatore. Che cosa dice, Shakespeare, dei palloni aerostatici?»
Mahnmut lasciò perdere l'argomento. «Vorrei che tu potessi vedere lo spettacolo.»
«Lo vorrei anch'io. Descrivimi ogni particolare.» Mahnmut alzò gli occhi. «Siamo tanto in alto che il cielo è quasi nero, sbiadisce a blu scuro e poi a blu un po' più chiaro verso l'orizzonte, che è decisamente curvo. Vedo la fascia di foschia dell'atmosfera in tutt'e due le direzioni. Sotto di noi è ancora nuvoloso, la prima luce del mattino fa brillare d'oro e di rosa le nubi. Dietro di noi la coltre di nubi è interrotta e vedo l'acqua azzurra e le rosse scogliere della Valles Marineris che si estende fino all'orizzonte orientale. A ovest, la direzione verso cui viaggiamo, le nubi coprono gran parte dell'altopiano di Tharsis, sembrano abbracciare il terreno a mano a mano che sale, ma i tre vulcani più vicini sbucano dalle nuvole dorate. Arsia Mons è il più lontano a sinistra, poi c'è Pavonis Mons e poi Ascraeus Mons, più lontano sulla destra, verso nord. Sono tutti di un bianco brillante per la neve e il ghiaccio e scintillano nella luce del mattino.»
«Vedi già Olympus?» chiese Orphu. «Oh, sì. Anche se è lontanissimo. Olympus Mons è il più alto vulcano in vista, si eleva oltre la curvatura occidentale del pianeta. Si trova fra il Pavonis e l'Ascraeus, ma molto più lontano. Anche lui è imbiancato di ghiaccio e di neve; la cima però non è innevata e rosseggia al sole nascente.»
«Vedi la zona dove abbiamo lasciato gli zek, Noctis Labyrinthus?»
Mahnmut si sporse dal bordo della navicella che lui stesso aveva costruito e guardò in basso e alle loro spalle. «No» rispose «è ancora coperta. Ma quando ci alzavamo verso la cortina di nubi, ho visto la cava, i moli e tutto il labirinto del Noctis. Al di là del porto e della cava, il labirinto di canyon e di scogliere franate corre per centinaia di chilometri a ovest e decine e decine a nord e a sud.»
Era piovuto durante gli ultimi giorni del viaggio in feluca, pioveva quando avevano attraccato agli affollati moli della cava dei POV nel Noctis Labyrinthus e pioveva ancora più forte quando Mahnmut aveva finalmente montato la navicella di fortuna, gonfiato l'aerostato usando gli annessi serbatoi di gas ed era partito, alzandosi sopra quella che poteva solo essere definita la città dei piccoli omini verdi. Un POV (o zek, per usare il nome che loro stessi si davano) si era chiaramente offerto di comunicare, ma Mahnmut aveva scosso la testa e si era rifiutato. Forse gli zek non morivano come individui, secondo la tesi di Orphu, ma "usare" un altro piccolo omino verde era insopportabile per Mahnmut. Comunque gli zek radunati avevano capito ciò che lui faceva con la navicella modificata e lo avevano aiutato a collegare cavi, a dispiegare l'involucro a camera singola e ad alta pressione dell'aerostato, che lentamente si gonfiava, e a fissare i cavi d'ancoraggio per resistere al vento, lavorando con l'efficienza di una squadra ben addestrata.
«Com'è il pallone?» chiese Orphu. Era al centro della navicella modificata per contenere anche lui, legato con molti metri di cavo e posto in una intelaiatura costruita da Mahnmut. Lì vicino, riparati e ben fissati, c'erano il trasmettitore e il Congegno.
«Sembra una gigantesca zucca sopra di noi» disse Mahnmut.
Orphu emise un rombo, una risata. «Hai mai visto una zucca in vita tua?»
«No, certo, ma tutt'e due abbiamo visto le immagini. L'aerestato è un ovoide arancione, più largo che alto, circa sessantacinque metri in orizzontale e cinquanta in verticale. Ha costole verticali come una zucca... ed è arancione.»
«Credevo fosse rivestito di materiale antiradar» disse Orphu e parve sorpreso.
«Infatti. Materiale antiradar, color arancione. I nostri progettisti moravec non avranno considerato che la gente cui dovevamo avvicinarci di nascosto potesse avere occhi, oltre che radar.» Stavolta Orphu rise con un rombo più forte. «Tipico, tipico!»
«Il nostro gruppo di cavi di buckycarbonio si manovra dal fondo del pallone» disse Mahnmut. «La navicella penzola a circa quaranta metri dal pallone.»
«Ben legata, mi auguro.»
«Legata meglio che ho potuto, anche se forse ho dimenticato di stringere bene un paio di nodi.»
Orphu rise di nuovo e tacque. Mahnmut continuò ancora un poco a guardare lo spettacolo.
Quando Orphu riprese contatto, era notte. Le stelle ardevano di luce fredda e Mahnmut non si era ancora abituato a quello sfavillio così vivido come non aveva mai visto in vita sua. Il satellite Phobos correva basso nel cielo e Deimos si era appena levato. Le nubi e i vulcani riflettevano la luce delle stelle. A nord, l'oceano luccicava.
«Siamo arrivati?» chiese Orphu.
«Non ancora. Un altro giorno o un giorno e mezzo.»
«Il vento ci spinge sempre nella direzione giusta?»
«Più o meno.»